lunedì 23 giugno 2008

USCITA IN BARCA

Finalmente dopo diverse settimane di rinuncia, per condizioni meteo-marine decisamente avverse, sabato siamo finalmente potuti uscire per la nostra battuta di pesca in barca a sugheri e maccarelli.
La giornata è stata decisamente estiva e molto assolata……del resto quella di sabato era proprio la giornata che contraddistingue il solstizio d’estate…..e non ha tradito le aspettative.
Il mare si presenta calmo ed alle 07.00 di mattina il caldo si era già fatto “pesante” anche se spirava una leggerissima brezza mattutina; le condizioni sembravano davvero essere le ideali per un’uscita in barca….ma non avevamo fatto i conti con altre avversità di cui non avevamo per niente tenuto conto….. speranzosi solo nel ritorno dell’anticiclone delle Azzorre.
Il fermo biologico dei pescherecci, sommato anche al momento di agitazione e di “fermo per scelta” di tutto l’ambiente della pesca professionale per l’aumentare giornaliero del costo del carburante, ci è costato almeno un paio d’ore di pesca post-alba, le ore migliori…………la persona addetta all’acquisto della cassa di sarde fresche ha dovuto attendere l’apertura di un grosso ipermercato per poter trovare (..meno male !!!!) quest’esca, di solito presente sui banchi in tutte le pescherie anche nelle più piccole.
Un’esca fresca è indispensabile per poter essere sicuri di una buona resa in acqua…..e pensare di non trovare sarde fresche sui banchi di pesce in questo periodo era veramente l’ultimo problema che ci ponevamo o che potevamo anche lontanamente immaginare.
Il nostro amico arriva trafelato con la cassa di sarde alle 08.30…… finalmente possiamo partire.
Partiamo dal borghetto dei pescatori ad Ostia e dopo poco meno di venti minuti di traversata siamo sul posto a pesca.
Caliamo due sacchi di pastura bloccandoli ad una profondità di circa 4 metri, su di una batimetrica di circa 45 metri, e cominciamo a pescare scarrocciando, vista la leggerissima corrente presente.
La prima mezz’ora passa senza che nessuno di noi riesca ad avvertire alcuna mangiata; purtroppo anche se la superfice del mare si presentava placida l’acqua era ancora molto torbida da precedenti mareggiate e dal limo trasportato dal tevere in seguito alle recenti e copiose piogge delle settimane scorse; un veloce giro di telefonate verso altri conoscenti, usciti anch’essi a pesca in zone di mare limitrofe, ci danno conferma della scarsa attività del pesce.
Ma due catture quasi in contemporanea, la mia è quella di un altro amico, ci ridanno la speranza…….. i primi due sugheri di buona pezzatura sono in barca.
Decidiamo quindi di spostarci leggermente e di gettare l’ancora.
Qualche cattura, anche se sporadica, ci risolleva il morale per qualche momento e ci fa patire un pò meno il caldo che a mezzogiorno è davvero opprimente.
Decidiamo di fare una pausa per il pranzo a base di pasta fredda e vino ( quello immancabile nelle nostre battute ) e come sempre avviene in questi casi, quando tutti hanno il bicchiere di vino in una mano e la forchetta nell’altra, le frizioni di due mulinelli cominciano a stridere…..meno male che i possessori delle canne avevano avuto l’accortezza di aprirle un po’ di più perché altre volte è capitato di vedere costose attrezzature letteralmente sparire sott’acqua.
Il terminale di una canna viene quasi immediatamente tranciato dal pesce, sicuramente una bella palamita….la conferma avviene successivamente quando, trascorsi almeno 15 minuti di lotta e di fughe sull’altra canna del fortunato pescatore, alla fine si riesce a portare a paiolo una palamita sui tre chilogrammi allamata fortunatamente con l’amo in punta di fauci…se avesse ingoiato il terminale di fluorocarbon dello 0.20 non avrebbe che avuto una breve durata tra quella tagliente dentatura del predatore.
Alla fine, anche se non tutti hanno avuto egual sorte, io i miei tredici pezzi con una media di circa 600 grammi l’uno tra sugheri e pochi maccarelli, li ho portati a casa…..forse ho un po’ sforato il limite dei 5 kg. consentiti…..ma anche in barca vale l’ironico e poetico pensiero trilussiano sul pollo….e sulle quantità che spettano al ricco fortunato e al poveraccio jellato…..ad uno và l’arrosto…tutto…..ed all’altro non rimane che il fumo!!!!
Perciò mi sono attenuto doverosamente e scrupolosamente alla legge ed ai regolamenti in cui è previsto che il peso totale dei pesci in barca deve essere suddiviso per il numero dei pescatori presenti……..per cui…….se ipoteticamente un pescatore prende dieci kg. di pesce ed un altro niente….. siamo perfettamente, scrupolosamente e doverosamente in regola con le disposizioni di legge….. ah ah ah ah!!!!!
Per la cronaca sabato ho usato una 14 piedi prettamente da ledgering ma adattissima anche per una pesca in light-drifting a sugheri e maccarelli; con monofilo in bobina dello 0.28, dei piombi a siluro intercambiabili da 5 sino a 30 grammi (a secondo della corrente e del tipo di pesca: a scarroccio o con barca ancorata); finale fluorocarbon dello 0.23 lungo 120-150 cm. ed amo del numero 3; come esca…. filetto di sarda rinforzato con filo elastico.

martedì 17 giugno 2008

NEL CUORE E NEI RICORDI - parte II°

Era oramai notte fonda ed il silenzio regnava in mare come in barca; i pesci ancora non davano segni della loro presenza o di una loro attività ed ognuno di noi era assorto nei propri pensieri quando, con la coda dell'occhio, notai un piccolo movimento del vettino della mia canna a cui seguì una poderosa flessione. Ferrai immediatamente: il pesce era grosso e "menava" delle tremende capocciate. Pian piano gli occupanti della barca si rianimarono e cominciarono con tutta una serie di suggerimenti ai quali ricordo di non aver prestato alcuna attenzione, tanto ero concentrato dalla lotta. Dopo parecchi minuti staccai il pesce dal fondo ed iniziai a "pompare" con la canna.
Mancavano soltanto pochi metri ormai, tutti ora erano in silenzio ed impegnati ad aiutarmi; chi illuminando la superficie del mare con grosse torce, chi pronto con il guadino e chi nientemeno armato di raffio. Fù in quel momento che notai quel piccolo anziano signore alzarsi dalla panchina e, barcollando, avvicinarsi a me.
La sua faccia era illuminata dalla luna e vidi che la sua bocca, aperta in un grande sorriso, era completamente priva di denti. Ed in quel silenzio parlò con me per la prima volta; descrivervi come lo fece non mi è possibile e per questo chiedo a voi uno sforzo nell'immaginarvi il suono delle parole in romanesco che uscirono dalla sua bocca senza dentiera: "A regazzi' -mi disse- se pij 'n sarego con la dentiera guarda che la dentiera è mia, l'ho vommitata prima".
Un uragano di risa si levò da quel barcone, al buio in mezzo al mare; chi era piegato in due, chi batteva i piedi sul paiolato, chi piangeva per il troppo ridere. Ed io che quasi perdevo il pesce, uno stupendo sarago pizzuto da 1.300 grammi, l'unico di quella taglia che io sia mai riuscito a prendere in tutta la mia vita di pescatore.
Ma non è quella preda che stimola oggi i miei ricordi e di cui voglio raccontarvi, quanto del fatto che quello fù il giorno, anzi la notte, in cui nacque una grande amicizia che non avrei mai creduto possibile, data anche la notevole differenza d’età, tra me Alessandro e Richetto.
Quante pescate insieme.... non c’è tratto di costa della nostra regione in cui non abbiamo pescato. E le intere settimane di pesca sulle coste della Sardegna e della Corsica….. ...indimenticabili!!!!
Lontano dalle famiglie e dal lavoro; smettevamo di pescare solo per mangiare qualcosa e per dormire qualche ora.
Amici, più che fratelli, un legame che ....solo la morte poteva spezzare.
Io pesco ancora e quando, ritornato lupo solitario, mi ritrovo di notte in riva al mare spesso mi capita di immaginarli tutti e due ancora accanto a me, seduti sulle loro sedioline intenti nel guardare i vettini delle canne aspettando….. "la magnata...quella bona"... e ritrovarmi a sorridere ed a comprendere quella frase che credo di aver ascoltato, e magari anche controvoglia, da bambino in qualche sermone domenicale, quella frase a cui ora posso dare un senso reale ed un vero significato: "nessuno se ne va via per sempre se vive nel cuore e nei ricordi di chi resta".
Loro, i miei amici Alessandro e Richetto, sono ancora oggi presenti nel mio cuore e vivranno per sempre nei miei ricordi.

NEL CUORE E NEI RICORDI - parte I°

Ero poco più che ventenne e con una passione maniacale per la pesca, qualsiasi tipo di pesca, quando iniziai a lavorare nel posto in cui attualmente mi trovo; essendo da poco in servizio non potevo ancora conoscere moltissimi dei miei colleghi però venni lo stesso a sapere della presenza di un gruppo di persone, appassionate di pesca al bolentino, che spesso organizzavano delle uscite in mare con un barcone. Immaginatevi la mia meraviglia ed il mio interessamento, non ero mai salito su di una barca, mai pescato in mare aperto e la voglia di far parte di una di queste "spedizioni" divenne talmente forte che cercai subito di mettermi in contatto con qualcuno del gruppo.
Mi presentarono Alessandro, un signore affabile e gentile, disponibile a diventare mio mentore e, per farla breve, in poco tempo riuscii a conoscere quasi tutti gli altri pescatori che mi accolsero tra di loro come meglio non avrebbe potuto immaginare uno come me, un "lupo solitario".
Alla prossima uscita, ed in notturna per giunta, ci sarei stato anch'io!!!!
Immediatamente cominciai a raccogliere tutte le informazioni possibili sul bolentino; Alessandro, con quella grande disponibilità e pazienza che poi avrei sempre di più apprezzato, mi aiutò nella scelta dell'attrezzatura e nella preparazione dei terminali.
La sera del giorno fatidico mi recai nel posto prefissato per l’appuntamento con largo anticipo, tanto che immaginavo di essere il primo e invece trovai, già in attesa, un signore anziano e piccolo di statura che a prima vista dava l'idea di essere ormai andato in pensione da un bel pezzo. L'unico saluto che ci scambiammo fù un "ciao" e nulla più....per questo la mia prima impressione, del resto sbagliata come accade con parecchie "prime impressioni", fù che quel tipo fosse una persona molto riservata e di poche parole. Nei minuti successivi arrivarono tutti gli altri, accompagnando i classici saluti con sfottò e battute scherzose, e poi finalmente.... la partenza!!!
Il barcone su cui salimmo quella sera era un 15 metri usato d'estate per le gite in mare a Torvaianica mentre, di notte e per tutto il resto dell'anno, il proprietario portava, dietro compenso naturalmente, le persone a pesca sulle secche di Tor Paterno. Ci sistemammo in barca, al mio fianco il "maestro" Sandro, dall'altra parte invece avevo quel piccolo "strano" ometto anziano, ma intimo amico di Sandro come seppi in seguito, di nome Richetto.
Arrivammo sul luogo di pesca, ci ancorammo su un fondale di 32 metri ed iniziammo a calare le lenze: sciarrani, scorfani, boghe e saragotti furono le prime catture. Richetto era sempre silenzioso e riservato e per questo pescare accanto a lui mi creava un po’ di disagio; calavo la lenza cercando di stare molto attento a non creargli alcun tipo di fastidio.
Dopo le prime ore i pesci cessarono di abboccare e cominciò il dramma del povero Richetto: sarà stata l'onda lunga, tutto ciò che si era mangiato o entrambi ma iniziò a sentirsi male ed a rimettere. Io e Sandro gli chiedemmo se avesse bisogno di un qualsiasi aiuto ma lui, facendo segno con la mano, ci fece capire che era tutto a posto; poi si stese su una panchina del barcone e si appisolò.

lunedì 9 giugno 2008

LA MALATTIA DELLA PESCA - parte II°

Il giorno dopo mi recai nel posto che da tempo avevo scelto per la mia prima “vera” uscita di pesca, il mio battesimo fluviale: l’isola tiberina tra i due rami del Tevere.
Raggiungibile da casa mia con i mezzi pubblici, fù per parecchi anni la mia personale palestra, la mia piccola isola. Certo bastava alzare la testa perché agli occhi apparisse il traffico che, già allora a metà degli anni settanta, si intravedeva sopra i ponti ma, dal momento in cui iniziavo a montare la mia canna, tutto intorno a me spariva: il rumore delle macchine, l’ospedale alle mie spalle con il suo via-vai di gente, i turisti che scattavano foto….rimanevamo solo io ed il mio fiume.
Non era stato semplice convincere i miei genitori; soprattutto mia madre era sull’orlo della disperazione quando intuì dove avevo intenzione d’andare i sabati pomeriggio e le domeniche; mio padre no, lui aveva in parte capito che assecondare le mie scelte, quell’attività che oltre allo studio, in cui del resto non avevo mai riscontrato problemi, impegnava completamente il mio tempo e la mia mente, mi avrebbe evitato di incappare in altri pericoli ed in altre tentazioni che a quei tempi la periferia di Roma presentava per un ragazzo della mia età.
Alla fine anche mia madre si rassegnò all’inevitabile e fù lei, nella sua realistica semplicità, a trovare quella giustificazione che avrebbe in parte alleviato le sue preoccupazioni verso quel figlio e le sue strane abitudini: il suo figlio maggiore era malato, “malato di pesca”.
E forse lo ero davvero perché non fù solo mia madre a farmelo notare; anche i miei amici non si capacitavano di come potessi rinunciare a quelle interminabili partite di pallone nel prato vicino casa, o a quei film western di Sergio Leone proiettati la domenica nel cinema del quartiere….per loro ero proprio matto, malato da ricoverare.
Quando poi a dirmelo fù anche un vecchio pescatore del Tevere non ebbi più dubbi: avevo la malattia della pesca, e ne ero felicissimo.
Quel vecchio pescatore si chiamava Aldo, faceva il ciabattino in una piccola bottega nei pressi della sinagoga; era rimasto vedovo da qualche anno ed anche se il figlio, emigrato in Svizzera per lavoro, più volte l’avesse invitato ad andare a vivere insieme alla sua famiglia Aldo non aveva mai accettato di staccarsi dalla città in cui era nato e vissuto ed in cui poteva ancora sedersi a “parlare” con la moglie, le volte che si recava a farle visita al camposanto.
Ma soprattutto credo non volesse allontanarsi dal biondo Tevere e dai suoi abitanti.
Frequentando quel tratto di fiume mi ci volle poco per far amicizia con un personaggio del genere; non certo un garista famoso, con attrezzature sofisticate ed abbigliamento iper-sponsorizzato, ma solo un pescatore vero, uno che amava pescare e non disdegnava di mangiare ciò che prendeva. Anzi direi proprio che la sua pesca era essenzialmente rivolta verso quei pesci che andavano poi a finire sulla sua tavola. Di tempo libero ne trovava sempre, se non c’era molto lavoro chiudeva prima bottega ed in cinque minuti era sul fiume.
La prima volta che lo incontrai fù un sabato pomeriggio. I giorni precedenti aveva piovuto molto ed il Tevere si era ingrossato sporcandosi. Aveva quasi raggiunto il limite degli argini in cemento che circondavano l’isola ed era quasi impossibile per me poter pescare in quell’acqua limacciosa e più veloce del solito.
Mentre girovagavo lungo la sponda vidi quel vecchietto seduto ed intento a pescare. La curiosità, in un ragazzo poco più che quattordicenne, può portare a comportamenti in cui la timidezza lascia il posto alla sfacciataggine e quindi mi sedetti accanto a lui ad osservare.
La mia sorpresa fù enorme, non tanto verso quel tipo di tecnica o per le “ciriole” (anguille) che già aveva catturato, quanto nel tipo d’attrezzatura che utilizzava per pescare.
E non era tanto quella vecchia canna da punta senza vettino, quanto quel mazzo di grossi e lunghi lombrichi alla fine della lenza e quel vecchio ombrello aperto, in cui si dibattevano già una decina di ciriole, poggiato a testa in giù sull’acqua e legato per il manico ad un grosso ramo sulla riva.
Lo osservai mentre tirava su un'altra anguilla ed immediatamente la poggiava in quell’ombrello; un paio di movimenti con la canna e i denti della “ciriola” mollavano la presa su quel voluminoso innesco rotondo, della grandezza di un limone, formato da quei sottili fili di seta in cui erano infilati quei grossi vermi di terra; l’anguilla si aggiungeva così al resto dei suoi simili nella concavità dell’ombrello.
L’ultimo pescatore con la “mazzacchera” sul Tevere, amava definirsi.
Non ho mai provato a pescare in questo modo anche perchè le anguille non erano le prede che speravo di catturare mentre per lui erano più che una buona cena; dopo ogni piena per me era sempre un divertimento fermarmi ad osservare Aldo mentre usava la mazzacchera.
Da lui ho imparato a pescare anche con le interiora ed i fegatini di pollo, esche che oltre alle immancabili anguille piacevano molto ai cavedani…. e che cavedani venivano fuori!!!
Un pomeriggio piovoso e freddo di gennaio non seppi rinunciare alla mia settimanale pescata sul Tevere e, pur sotto la pioggia, non abbandonai la mia postazione di pesca. Quando smise di piovere, sul fiume scese Aldo e nel vedermi così, inzuppato fradicio pur indossando un impermeabile, scosse leggermente la testa e mi ribadì quello che già mia madre ed i miei amici avevano sentenziato tempo prima: che ero veramente malato.
Ma le parole con cui me lo disse, insieme alla nostalgia mista ad ammirazione che intravidi nel suo sguardo, mi fecero capire molto, molto di più.
Mi disse esattamente così: “tu sei malato sul serio, malato di pesca… forse più di quanto lo fossi io alla tua età…ti auguro di non guarire mai”.

Da allora sono passati più di tre decenni ed io continuo ancora felicemente a convivere con questa mia “malattia”.

LA MALATTIA DELLA PESCA - parte I°

Mi son sempre chiesto come sia potuto accadere a me e perché.
Di solito si pensa che debbano per forza esistere delle concause, delle spinte che ci portano a seguire l’esempio del proprio genitore, di un parente o di qualche amico; anche solo il fatto di vivere in un ambiente nel quale si può essere quotidianamente a contatto con una determinata attività può portare alcuni ad innamorarsene; molti saggiamente ritengono che i germogli delle passioni siano già presenti nel DNA sin dal momento del nostro concepimento.
Questa spiegazione, di un’eredità genetica passionale, costituirebbe una valida risposta alle mie domande se si prendesse come riferimento quell’atavica attività che impegnava i primi gruppi di homo sapiens nel paleolitico, cacciatori e pescatori per sopravvivenza; se invece con questo si intende, come genericamente molti ritengono, che solamente da un padre o da un nonno amante della pesca sia possibile ereditare la stessa passione, allora anche questo tipo di spiegazione non può adattarsi al mio caso.
I miei nonni erano contadini e con una vagonata di figli da accudire quindi tempo per hobby non ne avevano molto a disposizione. Finita la seconda guerra mio padre, ottavo di nove figli, scelse all’età di 17 anni (..se poi vera scelta si può definire) di arruolarsi in marina e passare gran parte della sua giovinezza imbarcato su un cacciatorpediniere.
La passione della caccia, che condivideva con qualche fratello, finì forzatamente per affievolirsi nel tempo sino a scomparire quando, per questioni legate al suo lavoro, dovette trasferirsi a Roma insieme a me, che all’epoca avevo quattro anni, e mia madre; se anche fosse rimasta in lui qualche traccia di quella giovanile passione il fatto di non aver mai preso la patente, e quindi mai posseduto un mezzo autonomo di locomozione, la cancellò del tutto
Di attività alieutiche e di pesca non v’è segno in nessuno dei miei antenati per almeno tre generazioni, per cui mi chiedo come sia stato possibile che in un bambino di pochi anni, abituato alla vita di una piccola provincia e traumatizzato dall’impatto con una grande metropoli come Roma e senza più quella moltitudine di nonni, zii e cugini intorno, potesse nascere una passione come la pesca…
Eppure è successo, inspiegabilmente ma anche inevitabilmente direi perchè non mi sarebbe possibile concepire la mia vita passata e quella futura senza la pesca.
Ricordo chiaramente ancor oggi due episodi che mi sono accaduti quando ero piccolo e che mi hanno fatto capire l’importanza che avrebbero avuto per me l’interesse per la fauna ittica e, soprattutto, la passione per la pesca sportiva.
Seconda elementare, siamo a metà degli anni sessanta ed all’epoca fuori dalle scuole si distribuivano quasi giornalmente, come forma pubblicitaria dell’epoca, gli album per la raccolta delle figurine con in omaggio un paio di pacchetti delle stesse. L’album dei calciatori della Panini era quello più reclamizzato ed anche quello più richiesto da tutti i maschietti; a me non interessava più di tanto, lo prendevo solo per poi regalare quei due pacchetti ai compagni di classe che mi erano più simpatici. Un giorno la solita persona addetta alla distribuzione degli album omaggio venne letteralmente presa d’assalto dai miei coetanei e compagni di scuola, quando giunse il mio turno era rimasto solo un tipo di album, credo si chiamasse “il mondo sommerso”, o qualcosa del genere; era una raccolta di figurine di tutte le forme di vita, marine e d’acqua dolce…………...… bé, dopo qualche mese lo avevo finito di completare e fù anche l’unico album che completai.
Il secondo episodio avvenne un paio d’estati dopo; ritornati per un breve periodo di vacanza nella mia città natale fummo invitati una domenica da un collega di mio padre nella sua casa al mare; per farmi divertire e giocare un po’ in compagnia di suo figlio mi portò in cantina alla ricerca di un pallone.
Trovai il pallone su un secchio di plastica, lo sollevai e i miei occhi si posarono sul contenuto del secchio: c’erano due grosse tavolette di sughero su cui era avvolto del filo di nylon, un piombo e due ami, più una serie di piombi di riserva ed una intera scatoletta d’ami della lion d’or.
Ricordo che capii a cosa servissero immediatamente, ma chiesi ugualmente cosa fossero; lui mi spiegò che erano lenze per la pesca a bolentino, le aveva acquistate tempo prima ed usate solo un paio di volte e poi abbandonate in cantina perché andare a pescare non gli piaceva molto.
Continuai con una serie di domande ed alla fine giunsi allo scopo che segretamente dentro di me speravo dal momento stesso in cui avevo sollevato quella palla: uscì da quella cantina con in mano il secchio e tutto il suo contenuto.
Le mie giornate al mare quella estate furono magnificamente diverse dal solito, mentre gli altri bambini della mia età scavavano buche e facevano castelli di sabbia io ero impegnato con un piccolo retino nel cercare di catturare, tra gli scogli, gamberetti e piccoli paguri da “impalare” su quegli ami.
Quando gli altri erano tutti a farsi il bagno nelle loro ciambelle io, poco più in là e con l’acqua sino alla vita, cercavo di pescare con quella grossa lenza avvolta sul sughero.
Al ritorno a Roma i sintomi di questa “malattia” non diminuirono anzi; mi rivolsi all’edicolante di zona per sapere se esisteva qualche rivista che parlasse di pesca… ed una c’era; era un quindicinale con un impaginazione diversa dalle attuali riviste, simile a quella dei quotidiani, con qualche foto in bianco e nero, report ed informazioni sulle tecniche di pesca; mi pare si chiamasse il giornale dei pescatori. Per parecchi anni non persi mai una sola uscita.
La mia prima licenza di pesca la ottenni compiuti i 14 anni, prima non era contemplato dalle disposizioni legislative, si poteva andare senza licenza solo se accompagnati da un adulto che ne possedeva una… e mio padre non ne aveva.
Il periodo precedente non fù però un periodo senza pesca; seppi che a pochi chilometri da casa, e raggiungibile in autobus, esisteva un laghetto a pagamento con le trote iridee. Costrinsi (..costringere è proprio il termine giusto) mio padre per le prime volte ad accompagnarmi in quel lago. Prendevo in prestito dal gestore delle cannacce in bambù lunghe 3-4 metri montate con una lenza da far rabbrividire, la classica scatolina di vermi e, mentre mio padre leggeva il giornale, io passavo le quattro ore del turno di pesca non solo cercando di catturare qualche trota ma osservando, con più attenzione possibile, gli altri pescatori e le loro attrezzature.
Poi venne il giorno dei miei 14 anni…. indimenticabile… perchè quel giorno, come ho già accennato, ottenni i due regali più belli di tutti quelli avuti nei 47 compleanni che ho festeggiato sino ad ora.
La mia prima vera canna col mulinello e la licenza di pesca.

martedì 3 giugno 2008

IL LAGHETTO DI ANTONEDDU E "ZIRIPICCA" - III° parte

Mi posiziono approssimativamente in mezzo alle due piante e, visto che l’intrico dei rami si trovava poco al di sotto della superficie dell’acqua, cerco un nuovo artificiale galleggiante; in una scatolina trovo uno strano popper della storm mai provato prima e di cui ignoravo quasi l’esistenza, un’imitazione di un grosso insetto, una specie di gigantesco grillo con la bocca aperta dipinta di giallo.
Intanto che ero impegnato nello scegliere e nel montare la nuova esca il gregge si era impadronito di quasi tutta la sponda, lasciando libero per qualche metro solo il punto in cui mi trovavo.
Con la coda dell’occhio vedevo quel ragazzo, ad una decina di metri da me, che mi osservava incuriosito ed un po’ accigliato quasi come si guarda una persona che in quel posto, in quel posto che forse considerava solo suo, non avrebbe dovuto esserci.
Indirizzai il lancio cercando di far arrivare quel popper nel corridoio tra i due alberi, poco oltre gli ultimi rami. Ci riuscii in parte perché l’artificiale toccò la superficie dell’acqua un po’spostato a sinistra e poco oltre i rami del primo albero.
Aspettai la sua completa immobilità, recuperai il filo in bando e con la punta della canna iniziai con i primi due colpetti….pop-pop…. ed il popper si rianimò sulla superficie del lago. Attesi che l’acqua riacquistasse la sua immobilità, recuperai un altro po’ di filo e….pop, il primo colpetto…mentre contemporaneamente il mio sguardo si spostava verso quel ragazzino che adesso si era seduto su un tronco e con aria apparentemente preoccupata osservava il mio popper nel lago…Pop, secondo colpetto a cui immediatamente dopo segui un potente sciacquio e la canna quasi mi sfuggì dalle mani.
Un grosso black bass aveva fatto tutto da solo. Mentre io osservavo quel ragazzo un enorme persico era salito da sotto quell’intreccio di rami aveva afferrato quel grosso grillo finto ed era tornato giù, al riparo dell’albero, autoferrandosi.
La frizione del mio mulinello era tarata il giusto ed alcuni metri di monofilo vennero rilasciati immediatamente sotto la potente fuga del pesce. La punta della mia canna ora sfiorava l’acqua; l’attrezzatura con cui stavo pescando era al limite per un pesce del genere in più la situazione con cui dovevo fare i conti era molto complicata, anzi oserei dire “ramificata”.
Dopo la prima fuga il pesce si fermò, era ormai arrivato nei pressi della sua tana; la canna era ancora piegata ma la frizione non cantava più. Non sapevo cosa fare, avevo il timore di forzare il pesce e la mia paura non era certo solo quella di perderlo ma capivo che c’era la possibilità che la lenza si spezzasse e lui potesse rimanere attaccato ad un ramo a dibattersi sino alla morte.
Furono momenti d’attesa interminabili sino a quando la tensione sulla canna cominciò a diminuire ed il filo ad allontanarsi verso il centro del lago: il black aveva deciso di salire e combattere in superficie. Fù un combattimento fatto di salti e brevi ma potenti fughe laterali, poi pian piano lo avvicinai nei pressi della riva.
Era un pesce stupendo, mai visto un black bass così grosso, forse in qualche foto sulle riviste, ma dal vivo ed a pochi metri da me non mi era mai capitato prima.
Entrai per qualche metro in acqua per riuscire ad afferrarlo con la mano per la mandibola superiore; non so come feci ma ci riuscii. Le mie dita sparivano nella sua bocca enorme mentre lo portavo a riva, era talmente grande che poteva tranquillamente contenere il mio pugno sino al polso.
Le due ancorette del popper avevano fatto una buona presa nel palato e mi ci volle un pò di tempo e delicatezza nel toglierle. Intanto il ragazzino si era avvicinato a pochi passi da me continuando a fissare tristemente il grosso pesce.
Rimasi per qualche secondo ancora ad ammirare quell’esemplare stupendo, poi mi avvicinai nuovamente alla riva e lo rilasciai; pigramente il black bass si allontanò verso l’albero sommerso poi, con un potente colpo di coda, sparì.
Mentre lo stavo rilasciando immaginavo già i pensieri di quel ragazzino forse non abituato a tutto questo, magari stupito che un matto come il sottoscritto prima catturi un pesce del genere e poi, invece di portarlo a casa e metterlo in forno, lo liberi. Ma lo stupore invece fù il mio quando, incrociando il suo sguardo, vidi i suoi occhi brillare e la sua bocca aprirsi in un enorme sorriso. Rimanendo sempre un po’ distante da me e con quel bellissimo e contagioso sorriso stampato sul volto mi parlò ringraziandomi per aver ridato la libertà a quel pesce.
Fatto quel primo passo ci sedemmo sui ceppi e cominciammo a chiacchierare.
Aveva solo 13 anni ed il suo nome era Antonio ma tutti, in famiglia ed in paese, lo chiamavano Antoneddu. Quest’anno, finita la scuola, era toccato a lui badare al gregge in quanto il fratello maggiore, che se ne occupava prima, era stato assunto nella squadra antincendio per tutto il periodo estivo.
Mi disse che io ero il primo pescatore con la canna che incontrava qui al lago, quasi sempre deserto a parte un vecchietto del suo paese che ogni tanto in bicicletta veniva per cercare di catturare qualche carpa a fondo pescando con una lenza a mano; ma erano più le volte che le carpe non gli abboccavano e, se qualche volta lo facevano, gli portavano via tutta la lenza.
Mi spiegò che un paio d’anni fa pesci grossi come quello di oggi ve ne erano diversi nel lago, non molti ma un buon numero. Alcuni cacciatori di un paese vicino se ne accorsero, ritornarono di notte e per più notti con le reti e ne catturarono molti insieme anche a parecchie carpe. Quel grosso black era uno dei pochi che si era salvato forse perché aveva scelto come tana proprio quegli alberi sommersi.
Antoneddu aveva scoperto la tana del pesce una mattina di maggio quando una grossa cavalletta, per una folata di vento, era finita in acqua in quel punto e subito era apparso quell’enorme boccalone.
Da quel giorno Antoneddu tutte le mattine che scendeva con le pecore al lago passava il proprio tempo nel cercare di catturare grilli e cavallette nel prato, poi si sedeva sul tronco gettando un insetto alla volta in acqua; ad ogni lancio sistematicamente appariva in superficie il grosso predone.
Antoneddu alla fine mi confidò candidamente che aveva anche dato un nome al grosso persico trota, al “suo amico” pesce, lo chiamava “ziripicca” che nel dialetto del suo paese stava ad indicare proprio la cavalletta, quell’insetto di cui il pesce sembrava ghiotto.
Sinceramente non so quanto raccontato quel giorno da Antoneddu corrispondesse a verità e quanto fosse invece solo il frutto della sua fervida fantasia sta di fatto che nelle successive estati passate in Sardegna io non sia più ritornato a pescare in quel laghetto…….mi sarei sentito solo un intruso, ed avrei soltanto ottenuto di cancellare, forse per sempre, il ricordo di quel bellissimo incontro, di un bambino, delle sue fantasie e del suo amico pinnato.

IL LAGHETTO DI ANTONEDDU E "ZIRIPICCA" - II° parte

Parcheggio nel luogo che mi è stato indicato, indosso il gilet, prendo la canna con il mulinello e mi avvio verso il sentiero che mi era stato pazientemente e più volte descritto.
Ormai è giorno fatto, sono le 06.00 ed è già da 10 minuti buoni che cammino tra i boschi quando il sentiero comincia a scendere e inizio a scorgere tra gli alberi i primi bagliori del riverbero della luce sull’acqua; qualche decina di metri ed il laghetto mi appare in tutto il suo splendore.
Circondato da querce per un buon ¾ della sua circonferenza, il resto è invece occupato da una parete di roccia a strapiombo sormontata da un fitto boschetto di piccoli abeti; sotto alla parete di roccia si estende una piccola lingua di massi che collega la parete stessa con una enorme roccia che emerge da quelle acque di uno stupendo colore verde smeraldo, e che è a sua volta circondata da un fitto canneto e da un tappeto di alghe che emergono sulla superficie del lago.
Dalla mia posizione leggermente rialzata posso studiarne tutto il perimetro e subito mi balza all’occhio la certezza che quel punto è sicuramente irraggiungibile da riva se non in belly-boat, ed è un vero peccato perché le mie sensazioni di pescatore-predatore erano più che positive.
Scartato a malavoglia quel tratto osservo meglio il resto e purtroppo capisco che anche in buona parte della sponda opposta è quasi impossibile pescare perché sotto le querce si trovano immense macchie di rovi delle more, un muro di spine che occupa la riva sino ad entrare nell’acqua e non si notano a prima vista tracce di sentieri per attraversarle e del resto, anche ci fossero, come farei io a saperlo?
Solo il tratto che si trova alla fine del sentiero in cui mi trovo è parzialmente sgombro da rovi; un paio di grosse querce sono cadute in acqua, si scorgono a malapena alcuni loro rami sotto la superficie. I tronchi rimasti sulla riva però presentano un taglio netto e da questo capisco che sono stati volutamente tagliati; anche i rovi sono stati tagliati per una cinquantina di metri, rami e spine ormai secchi si trovano ammucchiati ai margini di un folto canneto sulla destra lasciando il loro posto ad un sottile tappeto di erbetta verde, a qualche masso ed a diversi ceppi di quercia.
In definitiva non mi posso lamentare, ho un discreto spazio per provare a pescare.
Dopo aver memorizzato la posizione delle piante cadute sul fondo del laghetto effettuo il primo lancio con un minnow galleggiante, lancio che dà immediatamente i suoi frutti: un black bass di 25 cm. afferra l’imitazione in balsa qualche attimo dopo la sua caduta in acqua; di abboccate del genere nella prima mezz’ora ne avrò diverse ma tutti i persici trota, catturati ed immediatamente rilasciati, saranno come taglia simili al primo.
Incomincia a prender forma nei miei pensieri ciò che temevo, e che spesso accade in alcuni bacini artificiali in Sardegna, l’abbondanza di esemplari della stessa specie e la scarsità di cibo a disposizione non ne favorisce l’accrescimento tanto da dar luogo a veri e propri fenomeni di nanismo.
Però le mie sensazioni dicono anche che questo potrebbe essere un posto speciale, magico oserei dire data la sua bellezza, ed allora incomincio con la giostra degli artificiali: un paio di lanci, una cattura di un persico di 300 gr. e cambio di artificiale.
Minnow countdown di diversi centimetri e di diverse colorazioni si alternavano a minnow galleggianti ed a lunghi e sinuosi vermoni siliconici innescati su grossi ami del 2/0 ma i risultati, a parte un black bass di circa 600 grammi, non cambiavano.
Ero ormai ai margini del canneto, un po’ sfiduciato quando un suono caratteristico, e da me già conosciuto, fece sparire del tutto quelle poche speranze a cui restavo ancorato.
Per alcuni potrebbe apparire solo come un dolce scampanellio accompagnato da leggeri belati, per un pescatore su un lago piccolo come questo, e con una sola parte di sponda accessibile ricoperta da un bel praticello di erba fresca, quei suoni segnavano la fine della pescata.
Il gregge di pecore scendeva lungo lo stesso sentiero da me percorso ed in pochi minuti sarebbe giunto sino al lago per occupare tutta la sponda, abbeverarsi e brucare l’erbetta della riva; ora finalmente capivo chi e perché aveva tagliato gli alberi ed i rovi.
Conoscendo gli usi della zona la mia prima preoccupazione fù quella di vedere se il gregge fosse accompagnato da un pastore perché molto spesso ciò non accadeva e ad accompagnare il gregge invece erano solo dei grossi cani maremmani ai quali la presenza di uno sconosciuto, in un posto in cui magari erano abituati a non incontrarne mai, poteva portare a comportamenti più che offensivi.
Finalmente dopo una cinquantina di pecore, e nessun avvistamento di cani, intravedo una minuta ed esile figura umana poco più di un bambino, allora mi tranquillizzo e mi incammino per gli ultimi lanci verso la zona con le querce in acqua.

IL LAGHETTO DI ANTONEDDU E "ZIRIPICCA" - I° parte

Le 05.00, dopo aver bevuto una tazza di caffè sono pronto ad uscire da casa.
Di solito quando mi alzo presto per andare a pesca l’adrenalina sale già al primo trillo della sveglia posta sul comodino, non certo come quando devo recarmi al lavoro che di sveglie devo programmarne almeno un paio a qualche minuto di distanza una dall’altra e, se ciò non bastasse, c’è anche quella sul comodino di mia moglie che suona una mezz’oretta dopo. E già… pur uscendo insieme per recarci nello stesso luogo di lavoro il sottoscritto tutte le mattine ha un’incombenza in più, quella di portare a spasso la nostra adorabile cagnetta.
Questo è uno di quei compiti che le mogli spesso e volentieri delegano, soprattutto quando tutto ciò dà loro la possibilità di restare ancora un po’ a crogiolarsi nel letto o concedere qualche minuto in più alla loro immancabile “ristrutturazione facciale mattutina”.
Oggi non c’è stato bisogno nemmeno di aspettare il suono della sveglia, ero già in piedi dieci minuti prima dell’ora che avevo prefissato; poi è bastato aprire il portoncino della villetta perché la piccola westie si precipitasse trotterellando in cortile per le sue esigenze fisiologiche.
Magari fosse sempre così; in città e nel nostro appartamento all’ottavo piano tutto questo non sarebbe stato possibile; ma oggi è un giorno di ferie, sono con la famiglia in vacanza nella casa di proprietà di mia moglie, con annesso cortile e giardino, ed anche la mia cagnetta ne è felicemente consapevole.
L’attrezzatura è già in macchina; non è molta perché oggi è una mattinata dedicata allo spinning quindi canna hawk in due pezzi della fenwick con annesso shimano gtm 4000 ed un gilet mimetico con i tasconi stracolmi di scatolette di artificiali: minnows, poppers e gli immancabili vermoni siliconici.
Non ha piovuto, qui purtroppo non piove da ormai molti mesi e quest’anno in particolare la mancanza d’acqua è un problema sentito da tutti gli esseri viventi, piante, uomini ed animali, ma la mia auto è lo stesso completamente bagnata e con i vetri appannati.
L’escursione termica tra il giorno e la notte, che d’estate si ha in questa zona, è di diversi gradi e non mi sorprende il fatto che la temperatura, segnata dal termometro nella mia auto, fosse oggi di soli 6 gradi. E’ anche vero che mi trovo nella zona del Mandrolisai ad 800 metri di altezza sul livello del mare e tra i monti della Barbagia e qui, altezza a parte, sono gli immensi boschi di querce, di sugheri e ultimamente di conifere piantate dalla provincia per il rimboschimento di quei tratti di bosco bruciati più o meno casualmente, che determinano questo tipo di clima.
Prima di sedermi al volante dell’auto mi godo ancora un po’ questa umida temperatura perchè so già che da qui a qualche ora il termometro comincerà inesorabilmente a salire e l’aria a farsi più secca; se la giornata si presenterà senza vento, come è accaduto ieri, la temperatura potrebbe superare anche i 34°, e sarebbe anche normale visto che oggi è il 2 agosto.
Accendo il motore pregustandomi già il viaggio tra le piccole stradine nei boschi dove il buio rimarrà ancora presente per un po’ anche se l’alba sta ormai sorgendo. Sarà un viaggio di andata quasi tutto in discesa visto che il posto in cui dovrò recarmi si troverà ad un livello di altitudine molto più basso rispetto al paese da dove sto partendo.
E’ un posto nuovo in cui non ho mai pescato; mi è stato consigliato ieri da un cugino di mia moglie che vi si è recato a caccia in primavera, mi ha detto che ha visto saltare delle carpe, a suo dire, gigantesche ed ha notato la presenza di altri pesci, forse delle trote secondo lui, ma dalla descrizione che mi ha fornito ho perfettamente intuito che quei pesci da lui scorti a galla altri non erano che persici trota.
Solitamente i sardi dell’entroterra, si sa, sono un popolo di allevatori il cui passatempo preferito è la caccia, soprattutto quella al cinghiale, mentre la pesca in acque interne non è che li attiri molto; a parte qualche pescatore occasionale di carpe, pesci che sistematicamente poi finiscono sulla griglia a cuocere, in questo piccolo paese ed in quelli vicini i pescatori si possono veramente contare sulla punta delle dita.
E dire che, di corsi d’acqua e di laghetti molto suggestivi, la zona ne è piena.
Regno della trota macrostigma presente nei torrenti più impervi e difficilissima da incontrare ed ora, colpa anche di questi ultimi anni di grande siccità, praticamente introvabile anche nei tratti di torrente più conosciuti ed in cui si era certi della sua presenza ridotti ormai a piccoli rigagnoli d’acqua.
Anche gli invasi della zona stanno risentendo del periodo di secca ma certamente in modo inferiore.
Per la proverbiale carenza d’acqua, e per la produzione di energia idroelettrica, su ogni corso d’acqua della Sardegna sono stati creati diversi bacini artificiali tramite la realizzazione di dighe, questo per permettere ad ogni paese o almeno ad un gruppo di paesi limitrofi, di avere il proprio piccolo invaso di raccolta per le esigenze legate all’agricoltura, all’allevamento o semplicemente alle attività quotidiane.
Sono sorti così, accanto ai grandi bacini artificiali come il lago Omodeo, una moltitudine di piccoli laghetti qualcuno dei quali non presente nemmeno sulle più aggiornate cartine stradali; delle autentiche perle incastonate tra i monti e circondate dai boschi.
Ed è verso uno di questi gioielli che io mi sto recando; un piccolissimo e profondo invaso, utilizzato come bacino di raccolta per le emergenze idriche e alimentato da una parte di acqua utilizzata da una centrale dell’enel e convogliata tramite uno stretto canale artificiale creato appositamente tra le montagne. Molto difficile da raggiungere e sconosciuto a quasi tutti, abitanti delle zone limitrofe e cacciatori a parte.