martedì 3 giugno 2008

IL LAGHETTO DI ANTONEDDU E "ZIRIPICCA" - III° parte

Mi posiziono approssimativamente in mezzo alle due piante e, visto che l’intrico dei rami si trovava poco al di sotto della superficie dell’acqua, cerco un nuovo artificiale galleggiante; in una scatolina trovo uno strano popper della storm mai provato prima e di cui ignoravo quasi l’esistenza, un’imitazione di un grosso insetto, una specie di gigantesco grillo con la bocca aperta dipinta di giallo.
Intanto che ero impegnato nello scegliere e nel montare la nuova esca il gregge si era impadronito di quasi tutta la sponda, lasciando libero per qualche metro solo il punto in cui mi trovavo.
Con la coda dell’occhio vedevo quel ragazzo, ad una decina di metri da me, che mi osservava incuriosito ed un po’ accigliato quasi come si guarda una persona che in quel posto, in quel posto che forse considerava solo suo, non avrebbe dovuto esserci.
Indirizzai il lancio cercando di far arrivare quel popper nel corridoio tra i due alberi, poco oltre gli ultimi rami. Ci riuscii in parte perché l’artificiale toccò la superficie dell’acqua un po’spostato a sinistra e poco oltre i rami del primo albero.
Aspettai la sua completa immobilità, recuperai il filo in bando e con la punta della canna iniziai con i primi due colpetti….pop-pop…. ed il popper si rianimò sulla superficie del lago. Attesi che l’acqua riacquistasse la sua immobilità, recuperai un altro po’ di filo e….pop, il primo colpetto…mentre contemporaneamente il mio sguardo si spostava verso quel ragazzino che adesso si era seduto su un tronco e con aria apparentemente preoccupata osservava il mio popper nel lago…Pop, secondo colpetto a cui immediatamente dopo segui un potente sciacquio e la canna quasi mi sfuggì dalle mani.
Un grosso black bass aveva fatto tutto da solo. Mentre io osservavo quel ragazzo un enorme persico era salito da sotto quell’intreccio di rami aveva afferrato quel grosso grillo finto ed era tornato giù, al riparo dell’albero, autoferrandosi.
La frizione del mio mulinello era tarata il giusto ed alcuni metri di monofilo vennero rilasciati immediatamente sotto la potente fuga del pesce. La punta della mia canna ora sfiorava l’acqua; l’attrezzatura con cui stavo pescando era al limite per un pesce del genere in più la situazione con cui dovevo fare i conti era molto complicata, anzi oserei dire “ramificata”.
Dopo la prima fuga il pesce si fermò, era ormai arrivato nei pressi della sua tana; la canna era ancora piegata ma la frizione non cantava più. Non sapevo cosa fare, avevo il timore di forzare il pesce e la mia paura non era certo solo quella di perderlo ma capivo che c’era la possibilità che la lenza si spezzasse e lui potesse rimanere attaccato ad un ramo a dibattersi sino alla morte.
Furono momenti d’attesa interminabili sino a quando la tensione sulla canna cominciò a diminuire ed il filo ad allontanarsi verso il centro del lago: il black aveva deciso di salire e combattere in superficie. Fù un combattimento fatto di salti e brevi ma potenti fughe laterali, poi pian piano lo avvicinai nei pressi della riva.
Era un pesce stupendo, mai visto un black bass così grosso, forse in qualche foto sulle riviste, ma dal vivo ed a pochi metri da me non mi era mai capitato prima.
Entrai per qualche metro in acqua per riuscire ad afferrarlo con la mano per la mandibola superiore; non so come feci ma ci riuscii. Le mie dita sparivano nella sua bocca enorme mentre lo portavo a riva, era talmente grande che poteva tranquillamente contenere il mio pugno sino al polso.
Le due ancorette del popper avevano fatto una buona presa nel palato e mi ci volle un pò di tempo e delicatezza nel toglierle. Intanto il ragazzino si era avvicinato a pochi passi da me continuando a fissare tristemente il grosso pesce.
Rimasi per qualche secondo ancora ad ammirare quell’esemplare stupendo, poi mi avvicinai nuovamente alla riva e lo rilasciai; pigramente il black bass si allontanò verso l’albero sommerso poi, con un potente colpo di coda, sparì.
Mentre lo stavo rilasciando immaginavo già i pensieri di quel ragazzino forse non abituato a tutto questo, magari stupito che un matto come il sottoscritto prima catturi un pesce del genere e poi, invece di portarlo a casa e metterlo in forno, lo liberi. Ma lo stupore invece fù il mio quando, incrociando il suo sguardo, vidi i suoi occhi brillare e la sua bocca aprirsi in un enorme sorriso. Rimanendo sempre un po’ distante da me e con quel bellissimo e contagioso sorriso stampato sul volto mi parlò ringraziandomi per aver ridato la libertà a quel pesce.
Fatto quel primo passo ci sedemmo sui ceppi e cominciammo a chiacchierare.
Aveva solo 13 anni ed il suo nome era Antonio ma tutti, in famiglia ed in paese, lo chiamavano Antoneddu. Quest’anno, finita la scuola, era toccato a lui badare al gregge in quanto il fratello maggiore, che se ne occupava prima, era stato assunto nella squadra antincendio per tutto il periodo estivo.
Mi disse che io ero il primo pescatore con la canna che incontrava qui al lago, quasi sempre deserto a parte un vecchietto del suo paese che ogni tanto in bicicletta veniva per cercare di catturare qualche carpa a fondo pescando con una lenza a mano; ma erano più le volte che le carpe non gli abboccavano e, se qualche volta lo facevano, gli portavano via tutta la lenza.
Mi spiegò che un paio d’anni fa pesci grossi come quello di oggi ve ne erano diversi nel lago, non molti ma un buon numero. Alcuni cacciatori di un paese vicino se ne accorsero, ritornarono di notte e per più notti con le reti e ne catturarono molti insieme anche a parecchie carpe. Quel grosso black era uno dei pochi che si era salvato forse perché aveva scelto come tana proprio quegli alberi sommersi.
Antoneddu aveva scoperto la tana del pesce una mattina di maggio quando una grossa cavalletta, per una folata di vento, era finita in acqua in quel punto e subito era apparso quell’enorme boccalone.
Da quel giorno Antoneddu tutte le mattine che scendeva con le pecore al lago passava il proprio tempo nel cercare di catturare grilli e cavallette nel prato, poi si sedeva sul tronco gettando un insetto alla volta in acqua; ad ogni lancio sistematicamente appariva in superficie il grosso predone.
Antoneddu alla fine mi confidò candidamente che aveva anche dato un nome al grosso persico trota, al “suo amico” pesce, lo chiamava “ziripicca” che nel dialetto del suo paese stava ad indicare proprio la cavalletta, quell’insetto di cui il pesce sembrava ghiotto.
Sinceramente non so quanto raccontato quel giorno da Antoneddu corrispondesse a verità e quanto fosse invece solo il frutto della sua fervida fantasia sta di fatto che nelle successive estati passate in Sardegna io non sia più ritornato a pescare in quel laghetto…….mi sarei sentito solo un intruso, ed avrei soltanto ottenuto di cancellare, forse per sempre, il ricordo di quel bellissimo incontro, di un bambino, delle sue fantasie e del suo amico pinnato.

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