lunedì 9 giugno 2008

LA MALATTIA DELLA PESCA - parte II°

Il giorno dopo mi recai nel posto che da tempo avevo scelto per la mia prima “vera” uscita di pesca, il mio battesimo fluviale: l’isola tiberina tra i due rami del Tevere.
Raggiungibile da casa mia con i mezzi pubblici, fù per parecchi anni la mia personale palestra, la mia piccola isola. Certo bastava alzare la testa perché agli occhi apparisse il traffico che, già allora a metà degli anni settanta, si intravedeva sopra i ponti ma, dal momento in cui iniziavo a montare la mia canna, tutto intorno a me spariva: il rumore delle macchine, l’ospedale alle mie spalle con il suo via-vai di gente, i turisti che scattavano foto….rimanevamo solo io ed il mio fiume.
Non era stato semplice convincere i miei genitori; soprattutto mia madre era sull’orlo della disperazione quando intuì dove avevo intenzione d’andare i sabati pomeriggio e le domeniche; mio padre no, lui aveva in parte capito che assecondare le mie scelte, quell’attività che oltre allo studio, in cui del resto non avevo mai riscontrato problemi, impegnava completamente il mio tempo e la mia mente, mi avrebbe evitato di incappare in altri pericoli ed in altre tentazioni che a quei tempi la periferia di Roma presentava per un ragazzo della mia età.
Alla fine anche mia madre si rassegnò all’inevitabile e fù lei, nella sua realistica semplicità, a trovare quella giustificazione che avrebbe in parte alleviato le sue preoccupazioni verso quel figlio e le sue strane abitudini: il suo figlio maggiore era malato, “malato di pesca”.
E forse lo ero davvero perché non fù solo mia madre a farmelo notare; anche i miei amici non si capacitavano di come potessi rinunciare a quelle interminabili partite di pallone nel prato vicino casa, o a quei film western di Sergio Leone proiettati la domenica nel cinema del quartiere….per loro ero proprio matto, malato da ricoverare.
Quando poi a dirmelo fù anche un vecchio pescatore del Tevere non ebbi più dubbi: avevo la malattia della pesca, e ne ero felicissimo.
Quel vecchio pescatore si chiamava Aldo, faceva il ciabattino in una piccola bottega nei pressi della sinagoga; era rimasto vedovo da qualche anno ed anche se il figlio, emigrato in Svizzera per lavoro, più volte l’avesse invitato ad andare a vivere insieme alla sua famiglia Aldo non aveva mai accettato di staccarsi dalla città in cui era nato e vissuto ed in cui poteva ancora sedersi a “parlare” con la moglie, le volte che si recava a farle visita al camposanto.
Ma soprattutto credo non volesse allontanarsi dal biondo Tevere e dai suoi abitanti.
Frequentando quel tratto di fiume mi ci volle poco per far amicizia con un personaggio del genere; non certo un garista famoso, con attrezzature sofisticate ed abbigliamento iper-sponsorizzato, ma solo un pescatore vero, uno che amava pescare e non disdegnava di mangiare ciò che prendeva. Anzi direi proprio che la sua pesca era essenzialmente rivolta verso quei pesci che andavano poi a finire sulla sua tavola. Di tempo libero ne trovava sempre, se non c’era molto lavoro chiudeva prima bottega ed in cinque minuti era sul fiume.
La prima volta che lo incontrai fù un sabato pomeriggio. I giorni precedenti aveva piovuto molto ed il Tevere si era ingrossato sporcandosi. Aveva quasi raggiunto il limite degli argini in cemento che circondavano l’isola ed era quasi impossibile per me poter pescare in quell’acqua limacciosa e più veloce del solito.
Mentre girovagavo lungo la sponda vidi quel vecchietto seduto ed intento a pescare. La curiosità, in un ragazzo poco più che quattordicenne, può portare a comportamenti in cui la timidezza lascia il posto alla sfacciataggine e quindi mi sedetti accanto a lui ad osservare.
La mia sorpresa fù enorme, non tanto verso quel tipo di tecnica o per le “ciriole” (anguille) che già aveva catturato, quanto nel tipo d’attrezzatura che utilizzava per pescare.
E non era tanto quella vecchia canna da punta senza vettino, quanto quel mazzo di grossi e lunghi lombrichi alla fine della lenza e quel vecchio ombrello aperto, in cui si dibattevano già una decina di ciriole, poggiato a testa in giù sull’acqua e legato per il manico ad un grosso ramo sulla riva.
Lo osservai mentre tirava su un'altra anguilla ed immediatamente la poggiava in quell’ombrello; un paio di movimenti con la canna e i denti della “ciriola” mollavano la presa su quel voluminoso innesco rotondo, della grandezza di un limone, formato da quei sottili fili di seta in cui erano infilati quei grossi vermi di terra; l’anguilla si aggiungeva così al resto dei suoi simili nella concavità dell’ombrello.
L’ultimo pescatore con la “mazzacchera” sul Tevere, amava definirsi.
Non ho mai provato a pescare in questo modo anche perchè le anguille non erano le prede che speravo di catturare mentre per lui erano più che una buona cena; dopo ogni piena per me era sempre un divertimento fermarmi ad osservare Aldo mentre usava la mazzacchera.
Da lui ho imparato a pescare anche con le interiora ed i fegatini di pollo, esche che oltre alle immancabili anguille piacevano molto ai cavedani…. e che cavedani venivano fuori!!!
Un pomeriggio piovoso e freddo di gennaio non seppi rinunciare alla mia settimanale pescata sul Tevere e, pur sotto la pioggia, non abbandonai la mia postazione di pesca. Quando smise di piovere, sul fiume scese Aldo e nel vedermi così, inzuppato fradicio pur indossando un impermeabile, scosse leggermente la testa e mi ribadì quello che già mia madre ed i miei amici avevano sentenziato tempo prima: che ero veramente malato.
Ma le parole con cui me lo disse, insieme alla nostalgia mista ad ammirazione che intravidi nel suo sguardo, mi fecero capire molto, molto di più.
Mi disse esattamente così: “tu sei malato sul serio, malato di pesca… forse più di quanto lo fossi io alla tua età…ti auguro di non guarire mai”.

Da allora sono passati più di tre decenni ed io continuo ancora felicemente a convivere con questa mia “malattia”.

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