mercoledì 2 luglio 2008

LE TROTE DI "RAPIDO".......parte VII°

Al loro ritorno Gaetano si addossò tutte le responsabilità compreso l’onere di dire la verità; la punizione fù più dura di ciò che immaginavamo: la vacanza per noi era finita, l’indomani mattina ritornavamo tutti a Roma.
Il mio amico, dal momento della discussione con i genitori, non disse più una parola; la mattina del giorno dopo salì in macchina, appoggiò la testa al finestrino e chiuse gli occhi.
Non seppi mai se realmente si addormentò sognando ancora quelle trote, le trote di Rapido, oppure chiuse gli occhi solo per non dover guardare il fiume, quel fiume che considerava un po’ suo, scorrere alla destra della strada per buona parte del viaggio, quel fiume che avrebbe rivisto solo mesi dopo.
Per me sarebbero invece passati degli anni perché potessi ritornare in quei luoghi con la mia macchina.
In quel viaggio triste e silenzioso, pur cosciente del fatto di aver commesso degli errori e che quella punizione alla fine fosse meritata e sensata, in cuor mio ero anche convinto che esser riuscito a vivere quella avventura straordinaria, a provare quelle intense emozioni, giustificasse qualsiasi disobbedienza e tutto ciò che ne conseguiva.
Il ricordo di quel luogo e di Rapido, che non rividi mai più, mi tenne compagnia durante tutto il tragitto verso casa; ad un certo punto dovetti persino trattenermi (… perché veramente non era il caso) dallo scoppiare a ridere, in quanto mi ricordai l’introduzione in una prefazione storica di un libro, alcune frasi di presentazione che avevo letto su di una rivista del settore, a firma di un famoso giornalista ed appassionato di pesca a mosca.
Che, se non ricordo male, pressappoco iniziava così: “ La tradizione vuole che i pescatori a mosca debbano far parte di una «classe superiore», un gruppo d’elitè della pesca sportiva. I pionieri che praticarono questo tipo di pesca appartenevano ad una classe culturalmente elevata; e fù proprio in quest’ambiente cortese, gentile e contemplativo che si sviluppò e diffuse la P. A. M.
Si arrivò addirittura a ritenere che la pesca a mosca non fosse alla portata economica, e soprattutto culturale, del volgo.
Questa convinzione, sicuramente esasperata, è però ancora in parte radicata nel ristretto gruppo di persone che, come me, ritengono l’arte della pesca a mosca come l’ultima frontiera, la tappa finale dell’evoluzione del puro e nobile neo-pescatore…..”
ma io sapevo che c’era invece chi se ne infischiava di elitè e tradizione, sapevo che c’era chi pescava a mosca perché amava semplicemente farlo e non solo per moda e distinzione di classe, chi la nobiltà la portava nel cuore e non impressa su un blasone……in quel momento ridevo tra me e me pensando a Rapido.

LE TROTE DI "RAPIDO".......parte VI°

A render ancor più completa quella immagine c’era anche un pescatore a mosca…e doveva esserci per forza per rendere il tutto stupendamente perfetto.
Ad un più attento esame, infatti, intuì immediatamente che tipo di canna e di mulinello erano in possesso di Rapido.
Avevo solamente letto qualcosa sulla pesca a mosca ma ora potevo ammirare con i miei occhi quel ragazzo, poco più che diciottenne, usare quegli attrezzi in un modo sublime; l’armonicità e la perfezione dei suoi movimenti li potevo intuire anch’io che conoscevo poco di quella tecnica.
La coda di topo, volteggiando dapprima dietro le sue spalle, veniva poi proiettata alla sua destra verso la parete di roccia come un saettante serpente, poi nuovamente richiamata alle sue spalle con movimenti fluidi e veloci. Nelle mani di Rapido quella lenza sembrava animarsi di vita propria, si librava nell’aria con movimenti precisi come a disegnare antichi simboli arcani.
L’imitazione d’insetto e il finale non riuscivo a scorgerli; solo dopo che la mosca, con una naturalezza e leggerezza impressionanti, era stata depositata a pochi centimetri dalla parete rocciosa i piccoli cerchi che formava sulla superficie del laghetto, e che rompevano per un attimo l’immobilità di quelle acque, mi indicavano dov’era arrivata.
C’era qualcosa di magico in quegli attimi, in quel luogo ed anche in quel ragazzo disabile, goffo nell’andatura e con le spalle curve; quel ragazzo deriso da tutti e costretto ad abbandonare la scuola dell’obbligo prima del termine; quel ragazzo la cui unica attività era e sarebbe rimasta quella di badare all’orto, alle galline ed ai maiali.
Non parlo certo della magia raccontata nelle fiabe, del ranocchio ridiventato principe o dello sguattero che diventava un nobile cavaliere con la sua alabarda.
Parlo della magia della natura che a volte compensa con doni ciò che alla nascita toglie.
Parlo delle capacità mnemoniche ed artistiche che possiedono molte persone autistiche.
Parlo dell’amore e della gioia infinita che sono proprie delle persone colpite dalla sindrome di Down.
Parlo di un ragazzo e della sua anima in cui trova dimora quella passione che è” l’arte della pesca” nella sua massima espressione.

Le parole allarmate di Gaetano mi riportarono alla realtà, si era fatto tardi e dovevamo rientrare a casa all’orario stabilito.
Ma non ci riuscimmo; il percorso al ritorno fù più lungo del previsto; le ombre che cominciavano a cambiare l’aspetto della gola ci rallentarono nel ritrovare il sentiero in salita che ci avrebbe portato sulla strada.
La salita stessa poi fu lenta e tragica; arrivammo stravolti, con le magliette lacere per gli spini, con graffi su tutto il corpo e sporchi di terra umida dalla testa ai piedi.
Pedalammo più veloci possibili ma quando arrivammo a casa non vi trovammo i genitori di Gaetano perchè usciti da più di un’ora a cercarci nel luogo in cui ci recavamo solitamente.

LE TROTE DI "RAPIDO".......parte V°

Il fiume restringeva parecchio il suo alveo e si incanalava tra le pareti di roccia a strapiombo, il livello dell’acqua si alzava tanto da impedirci qualsiasi tipo d’attraversamento con gli stivaloni....eravamo bloccati, fisicamente impossibilitati a proseguire ma soprattutto “bloccati mentalmente” da ciò che vedevamo quindici metri avanti a noi.
Un bellissimo laghetto abbastanza profondo e dal color verde smeraldo, grande quanto un campo da tennis, riceveva le acque dell’aniene che vi si riversavano con un piccolo salto, una cascatella che potevamo solo intuire dal rumore.
L’alveo del fiume si allargava, l’acqua rallentava notevolmente la sua corsa, racchiusa da un lato dalla parete di roccia mentre dall’altro era contornata da un fitto boschetto, solo alla fine il letto dell’aniene riacquistava le sue caratteristiche torrentizie, con l’acqua bassa e veloce che ricominciava a scorrere tra i massi.

Forse stavamo osservando uno dei laghetti in cui l’imperatore Nerone beava bagnarsi…solo che dall’altra parte del laghetto non era il nobile romano che scorgevamo ma un pescatore intento a cambiare un’esca sulla lenza, e quel pescatore era proprio Rapido.
Avevamo sbagliato itinerario, l’avevamo già intuito ed ora ne avevamo conferma; il luogo tanto sognato da Gaetano era lì davanti ai suoi occhi ma il suo sogno si era trasformato in incubo perché da dove eravamo non lo si poteva raggiungere.
Potevo leggere la frustrazione e la rabbia sul viso del mio amico dovuti al dubbio di aver mal interpretato le indicazioni della madre di Rapido ma non mi soffermai più di tanto a pensare, la mia completa attenzione era rivolta a quel luogo di una bellezza amena e selvaggia, letteralmente incantato da ciò che mi era stato concesso assistere; a quel quadro, oramai fisso nella mia mente, dove la roccia scura e la folta boscaglia facevano da cornice a quel bellissimo parto della natura, quel lago di smeraldo incastonato in una gola.

LE TROTE DI "RAPIDO".......parte IV°

-Ora che la pendenza si era leggermente ammorbidita e la fatica sui pedali notevolmente affievolita, potevo rilassarmi e godere del paesaggio che mi si prospettava innanzi agli occhi; stavamo percorrendo questa strada, che ora fiancheggiava la parete di roccia sulla nostra sinistra, già da qualche decina di minuti. Alla nostra destra potevamo ammirare l’orrido, che nel tempo le acque del fiume avevano scavato nella montagna, le cui pareti erano rigogliosamente coperte di alberi e piante. Ora in alto alla nostra sinistra, posto quasi sulla sommità del monte ed incastonato in quella roccia di cui sembrava farne parte, cominciava ad apparire in tutta la sua misteriosa bellezza il monastero di S. Scolastica ed il Sacro Speco di San Benedetto.
Adesso la strada si era trasformata in una leggera discesa, se l’avessimo percorsa sino alla fine ci saremmo trovati presso un bivio da cui , girando a sinistra, si poteva raggiungere il parcheggio per i monasteri, mentre poco più avanti sulla nostra destra avremmo trovato un piccolo sentiero, ormai a livello fiume, che ci avrebbe portato in una radura sul greto dell’aniene e ad un caratteristico ponte di legno che lo attraversava (… quella sarebbe divenuta una meta di pesca tra le mie preferite negli anni successivi).
Ma il luogo in cui dovevamo recarci oggi si trovava a metà della discesa.
Appoggiammo le bici, dopo averle legate tra loro, in una cavità della parete rocciosa e ci affacciammo sul dirupo; il fiume sotto di noi non era del tutto visibile per la folta vegetazione ma quella trentina di metri che ci separavano non ci impediva di sentirne il caratteristico”respiro”; lo spettacolo naturale era veramente stupendo e misterioso tanto quanto sembrasse pericoloso il calarsi in quella forra.
Ma Gaetano non ebbe nessuna remora e senza dire nulla, dopo aver preso la sua canna da pesca, cominciò a scendere; a quel punto non mi restava molta scelta o molto da pensare…quindi m’incamminai dietro di lui.
L’attenzione e l’impegno profusi in quella discesa, sommati anche a quell’entusiasmo ed a quell’incoscienza che caratterizza lo stato d’animo di ogni ragazzo di fronte ad una nuova avventura, non ci permisero di valutare bene la situazione in cui ci stavamo cacciando e soprattutto non ci consentì di capire la notevole fatica che avremmo fatto nella risalita al nostro ritorno.
Dopo qualche scivolata, senza conseguenze per fortuna se non per l’integrità e la pulizia dei nostri jeans, arrivammo in fondo dove scorreva il fiume.
Chiamare l’aniene “fiume” in questo tratto è veramente esagerato; direi che il suo corso, notevolmente ridotto, è tale da renderlo più simile ad un piccolo torrente di montagna poichè la diga dell’enel, posta qualche chilometro a monte, diminuiva drasticamente la portata di quell’acqua limpida e gelata.
Di Rapido non c’era traccia in giro e allora cominciammo a pescare.
Ci dividemmo sulle due sponde e, alternando i piccoli vermi di terra alle camole del miele, discendemmo quel tratto di fiume.
In questo caso gli stivali a coscia ci furono davvero molto utili per alcuni passaggi obbligati in acqua, anche se era norma indossarli soprattutto come cautela per le vipere; le prime catture ci fecero ben sperare ed ammirammo, finalmente e realisticamente, da vicino i colori veramente fantastici di quei salmonidi dal corpo slanciato, simili alle trote viste nella fattoria dal mio amico....simili per colori... ma non certo per dimensioni.
Le cinque trote che catturammo in quelle poche ore, pescando in alcune buche del fiume, furono pesci a misura o poco più; l’aniene alternava tratti con acqua bassissima e veloce a tratti in cui l’acqua rallentava a formare delle piccole pozze, ed era in quelle che noi insistevamo maggiormente senza però ottenere i risultati sperati e sognati.
Gaetano più andavamo avanti più diventava triste rassegnandosi all’idea che le indicazioni avute non fossero alla fine quelle giuste quando, subito dopo una curva del fiume, ci apparve uno spettacolo inimmaginabile.

LE TROTE DI "RAPIDO".......parte III°

Gaetano lo conosceva poco, un pò perché era più grande d’età rispetto a lui ma, soprattutto, perché era un tipo molto schivo e solitario…anzi lo era diventato per forza dato che gli altri suoi coetanei spesso lo deridevano per quella sua disabilità nell’apprendimento.
Aveva avuto sempre problemi nell’inserirsi, sia a scuola che fuori, ed oramai era considerato come lo scemo del paese; per questa sua difficoltà e lentezza nell’apprendere lo avevano soprannominato “Rapido”….Gaetano non aveva mai saputo il suo vero nome, si era uniformato a tutti gli altri ragazzi del paese e lo conosceva solo come Rapido e basta.
Quello che non aveva saputo e mai immaginato, sino a quel sabato di Pasqua, era che Rapido fosse un pescatore, solitario a pesca come nella vita…ma davvero un gran pescatore!!!
La mamma, quel sabato, gli aveva fornito tutte le informazioni possibili sul posto in cui suo figlio aveva preso quelle trote ed in più aveva confermato che quella non era la prima volta che il suo ragazzo portava pesci di quelle dimensioni a casa; spesso si recava a pescare e quasi sempre riportava le trote ma solamente quelle più grosse finivano nella sua cesta per la cena.
Gaetano da quel giorno, per tutti i fine settimana che passava al paese, aveva cominciato a guardare in maniera diversa quel grosso ragazzo dalle spalle curve che ogni tanto incrociava in piazza: il suo era sicuramente un miscuglio tra ammirazione ed invidia per quella libertà che a Rapido era concessa nel poter frequentare quel posto magico e pericoloso, mentre Gaetano poteva solo immaginarselo o sognarlo….. sognarlo sino a quel pomeriggio…………

LE TROTE DI "RAPIDO".......parte II°

Quel pomeriggio però sapevamo di contravvenire a quelle regole stabilite circa gli itinerari e le raccomandazioni a non allontanarsi molto, ma a Gaetano quella doveva sembrare proprio l’occasione giusta per recarci a pescare in un posto in cui dimoravano delle grosse trote autoctone e, soprattutto, per poter dar vita a quei sogni ed a quel desiderio che oramai lo assillavano quasi tutte le notti da quando, pochi mesi prima, aveva avuto modo di vedere casualmente due di questi stupendi esemplari.

Ogni anno era usanza, per Gaetano e la sua famiglia, passare le vacanze di Pasqua in compagnia dei nonni a Subiaco; sabato, prima della festa, il mio amico aveva accompagnato la madre poco fuori paese per acquistare prodotti dell’orto e uova fresche presso una piccola fattoria; al loro arrivo Gaetano notò la moglie del contadino vicina ad un lavello in cemento, fuori nel patio, intenta nell’eviscerare un grosso pesce…. non gli ci volle molte per capire di quale pesce si trattasse…era una grossa trota lunga intorno al mezzo metro, una stupenda vecchia fario e di sesso maschile, a suo dire, perché aveva la mascella inferiore molto più sviluppata di quella superiore.
L’accurata descrizione che mi fece di quella trota, una sera prima di addormentarci, fù talmente fantastica e precisa da rimanere indelebile nella mia mente sino ad oggi.
Quell’enorme fario, dal corpo slanciato ma possente, aveva dei grossi cerchi biancastri che racchiudevano piccoli pallini di color rosso sangue alternati a grossi pallini neri; le sue grandi pinne erano di un intenso color verde scuro con delle piccole striature rosate; l’addome era di un bel giallo chiaro ed anche dopo la morte la sua livrea non si era minimamente scurita ma aveva mantenuto intatta tutta la sua lucentezza, caratteristica delle trote autoctone o immesse ormai da molto tempo nel fiume…. e non era l’unica trota…. un’altra quasi gemella, solo leggermente più piccola, si trovava già pulita e pronta da mettere in forno su un vassoio di metallo.
Gaetano era rimasto letteralmente impressionato sia dalla bellezza che dalla grandezza di quelle trote e non poté fare a meno di rivolgere tutte le domande che gli venivano in mente alla signora che, gentilmente, si prestò a quel “terzo grado”…..ed alla fine il mio amico ottenne tutte le informazioni che voleva.
Le trote erano state catturate in un tratto di fiume molto impervio e pericoloso dato che si trovava in una stretta gola scavata tra due pareti rocciose pochi chilometri a valle della diga di Jenne.
Non era meta frequente dei pescatori occasionali anche perché difficilmente raggiungibile dalla strada che fiancheggiava la montagna; la scarpata per arrivare al fiume sottostante era profonda parecchi metri dal livello stradale e molto ripida; si poteva scendere solo in un punto ben preciso e solo nei periodi in cui non c’erano state piogge, altrimenti il sentiero ripidissimo diventava pericolosamente scivoloso; anche le possibili aperture della diga, con l’improvviso innalzamento del livello del fiume che ne conseguiva, scoraggiavano quasi tutti dall’avventurarsi in quella gola.
Quasi tutti….ma non il figliolo di quella signora.

LE TROTE DI "RAPIDO".......parte I°

-Gaetano pedalava sbuffando, un po’ impacciato dall’aver già calzato gli stivali a coscia, anche se li aveva rivoltati al ginocchio; io ero subito dietro di lui ed inforcavo la bicicletta presa in prestito da suo fratello.
Per quelle due settimane avevo avuto il permesso di usare quella bicicletta dato che Pasquale, impegnato nel servizio di leva, non avrebbe potuto certamente utilizzarla.
Io i miei stivali li avevo invece legati sulla bici insieme alla canna da pesca, ma la fatica che facevo non è che alla fine fosse poi molto diversa da quella dell’amico che mi precedeva.
Avevamo lasciato Subiaco subito dopo pranzo; partiti dalla casa dei nonni di Gaetano avevamo imboccato la provinciale che porta a Jenne e stavamo affrontando la salita.-

La nostra meta, quel pomeriggio estivo, era un tratto di fiume che scorreva in una gola stretta e boscosa nell’alta valle dell’aniene (ora parco dei monti Simbruini), nei pressi dei ruderi dell’antica villa che l’imperatore Nerone si fece costruire proprio in questo paesaggio aspro e selvaggio dove le rocce precipiti e le acque vorticose del fiume riuscivano a soddisfare la sua predilezione per le cascate, i giochi d'acqua, i laghi (ne fece costruire tre dai suoi architetti, collegati tra loro da piccole cascate, con un sistema di dighe e ponti) e soprattutto la predilezione per quei bagni freddi che all’epoca erano considerati un elisir di lunga vita.

Non ero mai stato in questo luogo del resto sino a pochi giorni prima non ero nemmeno mai stato a pesca sul fiume aniene ma, in quel giugno del 1975 iniziate le vacanze estive post-scolastiche, Gaetano mi aveva gentilmente invitato a passare un periodo di due settimane insieme a lui ed alla sua famiglia nella casa dei nonni materni.
I primi giorni ci era stato concesso di recarci in un tratto di fiume non molto distante da casa; avevamo tutti e due quindici anni all’epoca e la mancanza di una figura un po’ più matura come quella di Pasquale metteva in apprensione la mamma di Gaetano, ma il nostro comportamento irreprensibile ed il rispetto degli orari stabiliti nei primi giorni sul fiume ci aveva, a poco a poco, permesso un po’ più di libertà.
Gaetano era già un esperto conoscitore dell’aniene e delle sue trote, e non aveva grossi problemi nell’utilizzare la miglior tecnica per catturarle; con me, che ero anche il suo migliore amico e compagno di avventure, mostrava una grande pazienza nello spiegarmi come e dove pescare, nel farmi da insegnante sulle tecniche di pesca alle trote in quello che considerava un pò il suo fiume.
Il fatto di avere la possibilità di insegnare a me ciò che lui aveva imparato dal fratello, e dal contatto diretto con le trote dell’aniene, era per lui un piccolo motivo d’orgoglio. Mi ci vollero almeno un paio di giorni, tanti ami legati e tante lenze perse sui rami, per riuscire ad allamare la mia prima “trota fluviale” e raggiungere una minima padronanza nella pesca al tocco.

lunedì 23 giugno 2008

USCITA IN BARCA

Finalmente dopo diverse settimane di rinuncia, per condizioni meteo-marine decisamente avverse, sabato siamo finalmente potuti uscire per la nostra battuta di pesca in barca a sugheri e maccarelli.
La giornata è stata decisamente estiva e molto assolata……del resto quella di sabato era proprio la giornata che contraddistingue il solstizio d’estate…..e non ha tradito le aspettative.
Il mare si presenta calmo ed alle 07.00 di mattina il caldo si era già fatto “pesante” anche se spirava una leggerissima brezza mattutina; le condizioni sembravano davvero essere le ideali per un’uscita in barca….ma non avevamo fatto i conti con altre avversità di cui non avevamo per niente tenuto conto….. speranzosi solo nel ritorno dell’anticiclone delle Azzorre.
Il fermo biologico dei pescherecci, sommato anche al momento di agitazione e di “fermo per scelta” di tutto l’ambiente della pesca professionale per l’aumentare giornaliero del costo del carburante, ci è costato almeno un paio d’ore di pesca post-alba, le ore migliori…………la persona addetta all’acquisto della cassa di sarde fresche ha dovuto attendere l’apertura di un grosso ipermercato per poter trovare (..meno male !!!!) quest’esca, di solito presente sui banchi in tutte le pescherie anche nelle più piccole.
Un’esca fresca è indispensabile per poter essere sicuri di una buona resa in acqua…..e pensare di non trovare sarde fresche sui banchi di pesce in questo periodo era veramente l’ultimo problema che ci ponevamo o che potevamo anche lontanamente immaginare.
Il nostro amico arriva trafelato con la cassa di sarde alle 08.30…… finalmente possiamo partire.
Partiamo dal borghetto dei pescatori ad Ostia e dopo poco meno di venti minuti di traversata siamo sul posto a pesca.
Caliamo due sacchi di pastura bloccandoli ad una profondità di circa 4 metri, su di una batimetrica di circa 45 metri, e cominciamo a pescare scarrocciando, vista la leggerissima corrente presente.
La prima mezz’ora passa senza che nessuno di noi riesca ad avvertire alcuna mangiata; purtroppo anche se la superfice del mare si presentava placida l’acqua era ancora molto torbida da precedenti mareggiate e dal limo trasportato dal tevere in seguito alle recenti e copiose piogge delle settimane scorse; un veloce giro di telefonate verso altri conoscenti, usciti anch’essi a pesca in zone di mare limitrofe, ci danno conferma della scarsa attività del pesce.
Ma due catture quasi in contemporanea, la mia è quella di un altro amico, ci ridanno la speranza…….. i primi due sugheri di buona pezzatura sono in barca.
Decidiamo quindi di spostarci leggermente e di gettare l’ancora.
Qualche cattura, anche se sporadica, ci risolleva il morale per qualche momento e ci fa patire un pò meno il caldo che a mezzogiorno è davvero opprimente.
Decidiamo di fare una pausa per il pranzo a base di pasta fredda e vino ( quello immancabile nelle nostre battute ) e come sempre avviene in questi casi, quando tutti hanno il bicchiere di vino in una mano e la forchetta nell’altra, le frizioni di due mulinelli cominciano a stridere…..meno male che i possessori delle canne avevano avuto l’accortezza di aprirle un po’ di più perché altre volte è capitato di vedere costose attrezzature letteralmente sparire sott’acqua.
Il terminale di una canna viene quasi immediatamente tranciato dal pesce, sicuramente una bella palamita….la conferma avviene successivamente quando, trascorsi almeno 15 minuti di lotta e di fughe sull’altra canna del fortunato pescatore, alla fine si riesce a portare a paiolo una palamita sui tre chilogrammi allamata fortunatamente con l’amo in punta di fauci…se avesse ingoiato il terminale di fluorocarbon dello 0.20 non avrebbe che avuto una breve durata tra quella tagliente dentatura del predatore.
Alla fine, anche se non tutti hanno avuto egual sorte, io i miei tredici pezzi con una media di circa 600 grammi l’uno tra sugheri e pochi maccarelli, li ho portati a casa…..forse ho un po’ sforato il limite dei 5 kg. consentiti…..ma anche in barca vale l’ironico e poetico pensiero trilussiano sul pollo….e sulle quantità che spettano al ricco fortunato e al poveraccio jellato…..ad uno và l’arrosto…tutto…..ed all’altro non rimane che il fumo!!!!
Perciò mi sono attenuto doverosamente e scrupolosamente alla legge ed ai regolamenti in cui è previsto che il peso totale dei pesci in barca deve essere suddiviso per il numero dei pescatori presenti……..per cui…….se ipoteticamente un pescatore prende dieci kg. di pesce ed un altro niente….. siamo perfettamente, scrupolosamente e doverosamente in regola con le disposizioni di legge….. ah ah ah ah!!!!!
Per la cronaca sabato ho usato una 14 piedi prettamente da ledgering ma adattissima anche per una pesca in light-drifting a sugheri e maccarelli; con monofilo in bobina dello 0.28, dei piombi a siluro intercambiabili da 5 sino a 30 grammi (a secondo della corrente e del tipo di pesca: a scarroccio o con barca ancorata); finale fluorocarbon dello 0.23 lungo 120-150 cm. ed amo del numero 3; come esca…. filetto di sarda rinforzato con filo elastico.

martedì 17 giugno 2008

NEL CUORE E NEI RICORDI - parte II°

Era oramai notte fonda ed il silenzio regnava in mare come in barca; i pesci ancora non davano segni della loro presenza o di una loro attività ed ognuno di noi era assorto nei propri pensieri quando, con la coda dell'occhio, notai un piccolo movimento del vettino della mia canna a cui seguì una poderosa flessione. Ferrai immediatamente: il pesce era grosso e "menava" delle tremende capocciate. Pian piano gli occupanti della barca si rianimarono e cominciarono con tutta una serie di suggerimenti ai quali ricordo di non aver prestato alcuna attenzione, tanto ero concentrato dalla lotta. Dopo parecchi minuti staccai il pesce dal fondo ed iniziai a "pompare" con la canna.
Mancavano soltanto pochi metri ormai, tutti ora erano in silenzio ed impegnati ad aiutarmi; chi illuminando la superficie del mare con grosse torce, chi pronto con il guadino e chi nientemeno armato di raffio. Fù in quel momento che notai quel piccolo anziano signore alzarsi dalla panchina e, barcollando, avvicinarsi a me.
La sua faccia era illuminata dalla luna e vidi che la sua bocca, aperta in un grande sorriso, era completamente priva di denti. Ed in quel silenzio parlò con me per la prima volta; descrivervi come lo fece non mi è possibile e per questo chiedo a voi uno sforzo nell'immaginarvi il suono delle parole in romanesco che uscirono dalla sua bocca senza dentiera: "A regazzi' -mi disse- se pij 'n sarego con la dentiera guarda che la dentiera è mia, l'ho vommitata prima".
Un uragano di risa si levò da quel barcone, al buio in mezzo al mare; chi era piegato in due, chi batteva i piedi sul paiolato, chi piangeva per il troppo ridere. Ed io che quasi perdevo il pesce, uno stupendo sarago pizzuto da 1.300 grammi, l'unico di quella taglia che io sia mai riuscito a prendere in tutta la mia vita di pescatore.
Ma non è quella preda che stimola oggi i miei ricordi e di cui voglio raccontarvi, quanto del fatto che quello fù il giorno, anzi la notte, in cui nacque una grande amicizia che non avrei mai creduto possibile, data anche la notevole differenza d’età, tra me Alessandro e Richetto.
Quante pescate insieme.... non c’è tratto di costa della nostra regione in cui non abbiamo pescato. E le intere settimane di pesca sulle coste della Sardegna e della Corsica….. ...indimenticabili!!!!
Lontano dalle famiglie e dal lavoro; smettevamo di pescare solo per mangiare qualcosa e per dormire qualche ora.
Amici, più che fratelli, un legame che ....solo la morte poteva spezzare.
Io pesco ancora e quando, ritornato lupo solitario, mi ritrovo di notte in riva al mare spesso mi capita di immaginarli tutti e due ancora accanto a me, seduti sulle loro sedioline intenti nel guardare i vettini delle canne aspettando….. "la magnata...quella bona"... e ritrovarmi a sorridere ed a comprendere quella frase che credo di aver ascoltato, e magari anche controvoglia, da bambino in qualche sermone domenicale, quella frase a cui ora posso dare un senso reale ed un vero significato: "nessuno se ne va via per sempre se vive nel cuore e nei ricordi di chi resta".
Loro, i miei amici Alessandro e Richetto, sono ancora oggi presenti nel mio cuore e vivranno per sempre nei miei ricordi.

NEL CUORE E NEI RICORDI - parte I°

Ero poco più che ventenne e con una passione maniacale per la pesca, qualsiasi tipo di pesca, quando iniziai a lavorare nel posto in cui attualmente mi trovo; essendo da poco in servizio non potevo ancora conoscere moltissimi dei miei colleghi però venni lo stesso a sapere della presenza di un gruppo di persone, appassionate di pesca al bolentino, che spesso organizzavano delle uscite in mare con un barcone. Immaginatevi la mia meraviglia ed il mio interessamento, non ero mai salito su di una barca, mai pescato in mare aperto e la voglia di far parte di una di queste "spedizioni" divenne talmente forte che cercai subito di mettermi in contatto con qualcuno del gruppo.
Mi presentarono Alessandro, un signore affabile e gentile, disponibile a diventare mio mentore e, per farla breve, in poco tempo riuscii a conoscere quasi tutti gli altri pescatori che mi accolsero tra di loro come meglio non avrebbe potuto immaginare uno come me, un "lupo solitario".
Alla prossima uscita, ed in notturna per giunta, ci sarei stato anch'io!!!!
Immediatamente cominciai a raccogliere tutte le informazioni possibili sul bolentino; Alessandro, con quella grande disponibilità e pazienza che poi avrei sempre di più apprezzato, mi aiutò nella scelta dell'attrezzatura e nella preparazione dei terminali.
La sera del giorno fatidico mi recai nel posto prefissato per l’appuntamento con largo anticipo, tanto che immaginavo di essere il primo e invece trovai, già in attesa, un signore anziano e piccolo di statura che a prima vista dava l'idea di essere ormai andato in pensione da un bel pezzo. L'unico saluto che ci scambiammo fù un "ciao" e nulla più....per questo la mia prima impressione, del resto sbagliata come accade con parecchie "prime impressioni", fù che quel tipo fosse una persona molto riservata e di poche parole. Nei minuti successivi arrivarono tutti gli altri, accompagnando i classici saluti con sfottò e battute scherzose, e poi finalmente.... la partenza!!!
Il barcone su cui salimmo quella sera era un 15 metri usato d'estate per le gite in mare a Torvaianica mentre, di notte e per tutto il resto dell'anno, il proprietario portava, dietro compenso naturalmente, le persone a pesca sulle secche di Tor Paterno. Ci sistemammo in barca, al mio fianco il "maestro" Sandro, dall'altra parte invece avevo quel piccolo "strano" ometto anziano, ma intimo amico di Sandro come seppi in seguito, di nome Richetto.
Arrivammo sul luogo di pesca, ci ancorammo su un fondale di 32 metri ed iniziammo a calare le lenze: sciarrani, scorfani, boghe e saragotti furono le prime catture. Richetto era sempre silenzioso e riservato e per questo pescare accanto a lui mi creava un po’ di disagio; calavo la lenza cercando di stare molto attento a non creargli alcun tipo di fastidio.
Dopo le prime ore i pesci cessarono di abboccare e cominciò il dramma del povero Richetto: sarà stata l'onda lunga, tutto ciò che si era mangiato o entrambi ma iniziò a sentirsi male ed a rimettere. Io e Sandro gli chiedemmo se avesse bisogno di un qualsiasi aiuto ma lui, facendo segno con la mano, ci fece capire che era tutto a posto; poi si stese su una panchina del barcone e si appisolò.

lunedì 9 giugno 2008

LA MALATTIA DELLA PESCA - parte II°

Il giorno dopo mi recai nel posto che da tempo avevo scelto per la mia prima “vera” uscita di pesca, il mio battesimo fluviale: l’isola tiberina tra i due rami del Tevere.
Raggiungibile da casa mia con i mezzi pubblici, fù per parecchi anni la mia personale palestra, la mia piccola isola. Certo bastava alzare la testa perché agli occhi apparisse il traffico che, già allora a metà degli anni settanta, si intravedeva sopra i ponti ma, dal momento in cui iniziavo a montare la mia canna, tutto intorno a me spariva: il rumore delle macchine, l’ospedale alle mie spalle con il suo via-vai di gente, i turisti che scattavano foto….rimanevamo solo io ed il mio fiume.
Non era stato semplice convincere i miei genitori; soprattutto mia madre era sull’orlo della disperazione quando intuì dove avevo intenzione d’andare i sabati pomeriggio e le domeniche; mio padre no, lui aveva in parte capito che assecondare le mie scelte, quell’attività che oltre allo studio, in cui del resto non avevo mai riscontrato problemi, impegnava completamente il mio tempo e la mia mente, mi avrebbe evitato di incappare in altri pericoli ed in altre tentazioni che a quei tempi la periferia di Roma presentava per un ragazzo della mia età.
Alla fine anche mia madre si rassegnò all’inevitabile e fù lei, nella sua realistica semplicità, a trovare quella giustificazione che avrebbe in parte alleviato le sue preoccupazioni verso quel figlio e le sue strane abitudini: il suo figlio maggiore era malato, “malato di pesca”.
E forse lo ero davvero perché non fù solo mia madre a farmelo notare; anche i miei amici non si capacitavano di come potessi rinunciare a quelle interminabili partite di pallone nel prato vicino casa, o a quei film western di Sergio Leone proiettati la domenica nel cinema del quartiere….per loro ero proprio matto, malato da ricoverare.
Quando poi a dirmelo fù anche un vecchio pescatore del Tevere non ebbi più dubbi: avevo la malattia della pesca, e ne ero felicissimo.
Quel vecchio pescatore si chiamava Aldo, faceva il ciabattino in una piccola bottega nei pressi della sinagoga; era rimasto vedovo da qualche anno ed anche se il figlio, emigrato in Svizzera per lavoro, più volte l’avesse invitato ad andare a vivere insieme alla sua famiglia Aldo non aveva mai accettato di staccarsi dalla città in cui era nato e vissuto ed in cui poteva ancora sedersi a “parlare” con la moglie, le volte che si recava a farle visita al camposanto.
Ma soprattutto credo non volesse allontanarsi dal biondo Tevere e dai suoi abitanti.
Frequentando quel tratto di fiume mi ci volle poco per far amicizia con un personaggio del genere; non certo un garista famoso, con attrezzature sofisticate ed abbigliamento iper-sponsorizzato, ma solo un pescatore vero, uno che amava pescare e non disdegnava di mangiare ciò che prendeva. Anzi direi proprio che la sua pesca era essenzialmente rivolta verso quei pesci che andavano poi a finire sulla sua tavola. Di tempo libero ne trovava sempre, se non c’era molto lavoro chiudeva prima bottega ed in cinque minuti era sul fiume.
La prima volta che lo incontrai fù un sabato pomeriggio. I giorni precedenti aveva piovuto molto ed il Tevere si era ingrossato sporcandosi. Aveva quasi raggiunto il limite degli argini in cemento che circondavano l’isola ed era quasi impossibile per me poter pescare in quell’acqua limacciosa e più veloce del solito.
Mentre girovagavo lungo la sponda vidi quel vecchietto seduto ed intento a pescare. La curiosità, in un ragazzo poco più che quattordicenne, può portare a comportamenti in cui la timidezza lascia il posto alla sfacciataggine e quindi mi sedetti accanto a lui ad osservare.
La mia sorpresa fù enorme, non tanto verso quel tipo di tecnica o per le “ciriole” (anguille) che già aveva catturato, quanto nel tipo d’attrezzatura che utilizzava per pescare.
E non era tanto quella vecchia canna da punta senza vettino, quanto quel mazzo di grossi e lunghi lombrichi alla fine della lenza e quel vecchio ombrello aperto, in cui si dibattevano già una decina di ciriole, poggiato a testa in giù sull’acqua e legato per il manico ad un grosso ramo sulla riva.
Lo osservai mentre tirava su un'altra anguilla ed immediatamente la poggiava in quell’ombrello; un paio di movimenti con la canna e i denti della “ciriola” mollavano la presa su quel voluminoso innesco rotondo, della grandezza di un limone, formato da quei sottili fili di seta in cui erano infilati quei grossi vermi di terra; l’anguilla si aggiungeva così al resto dei suoi simili nella concavità dell’ombrello.
L’ultimo pescatore con la “mazzacchera” sul Tevere, amava definirsi.
Non ho mai provato a pescare in questo modo anche perchè le anguille non erano le prede che speravo di catturare mentre per lui erano più che una buona cena; dopo ogni piena per me era sempre un divertimento fermarmi ad osservare Aldo mentre usava la mazzacchera.
Da lui ho imparato a pescare anche con le interiora ed i fegatini di pollo, esche che oltre alle immancabili anguille piacevano molto ai cavedani…. e che cavedani venivano fuori!!!
Un pomeriggio piovoso e freddo di gennaio non seppi rinunciare alla mia settimanale pescata sul Tevere e, pur sotto la pioggia, non abbandonai la mia postazione di pesca. Quando smise di piovere, sul fiume scese Aldo e nel vedermi così, inzuppato fradicio pur indossando un impermeabile, scosse leggermente la testa e mi ribadì quello che già mia madre ed i miei amici avevano sentenziato tempo prima: che ero veramente malato.
Ma le parole con cui me lo disse, insieme alla nostalgia mista ad ammirazione che intravidi nel suo sguardo, mi fecero capire molto, molto di più.
Mi disse esattamente così: “tu sei malato sul serio, malato di pesca… forse più di quanto lo fossi io alla tua età…ti auguro di non guarire mai”.

Da allora sono passati più di tre decenni ed io continuo ancora felicemente a convivere con questa mia “malattia”.

LA MALATTIA DELLA PESCA - parte I°

Mi son sempre chiesto come sia potuto accadere a me e perché.
Di solito si pensa che debbano per forza esistere delle concause, delle spinte che ci portano a seguire l’esempio del proprio genitore, di un parente o di qualche amico; anche solo il fatto di vivere in un ambiente nel quale si può essere quotidianamente a contatto con una determinata attività può portare alcuni ad innamorarsene; molti saggiamente ritengono che i germogli delle passioni siano già presenti nel DNA sin dal momento del nostro concepimento.
Questa spiegazione, di un’eredità genetica passionale, costituirebbe una valida risposta alle mie domande se si prendesse come riferimento quell’atavica attività che impegnava i primi gruppi di homo sapiens nel paleolitico, cacciatori e pescatori per sopravvivenza; se invece con questo si intende, come genericamente molti ritengono, che solamente da un padre o da un nonno amante della pesca sia possibile ereditare la stessa passione, allora anche questo tipo di spiegazione non può adattarsi al mio caso.
I miei nonni erano contadini e con una vagonata di figli da accudire quindi tempo per hobby non ne avevano molto a disposizione. Finita la seconda guerra mio padre, ottavo di nove figli, scelse all’età di 17 anni (..se poi vera scelta si può definire) di arruolarsi in marina e passare gran parte della sua giovinezza imbarcato su un cacciatorpediniere.
La passione della caccia, che condivideva con qualche fratello, finì forzatamente per affievolirsi nel tempo sino a scomparire quando, per questioni legate al suo lavoro, dovette trasferirsi a Roma insieme a me, che all’epoca avevo quattro anni, e mia madre; se anche fosse rimasta in lui qualche traccia di quella giovanile passione il fatto di non aver mai preso la patente, e quindi mai posseduto un mezzo autonomo di locomozione, la cancellò del tutto
Di attività alieutiche e di pesca non v’è segno in nessuno dei miei antenati per almeno tre generazioni, per cui mi chiedo come sia stato possibile che in un bambino di pochi anni, abituato alla vita di una piccola provincia e traumatizzato dall’impatto con una grande metropoli come Roma e senza più quella moltitudine di nonni, zii e cugini intorno, potesse nascere una passione come la pesca…
Eppure è successo, inspiegabilmente ma anche inevitabilmente direi perchè non mi sarebbe possibile concepire la mia vita passata e quella futura senza la pesca.
Ricordo chiaramente ancor oggi due episodi che mi sono accaduti quando ero piccolo e che mi hanno fatto capire l’importanza che avrebbero avuto per me l’interesse per la fauna ittica e, soprattutto, la passione per la pesca sportiva.
Seconda elementare, siamo a metà degli anni sessanta ed all’epoca fuori dalle scuole si distribuivano quasi giornalmente, come forma pubblicitaria dell’epoca, gli album per la raccolta delle figurine con in omaggio un paio di pacchetti delle stesse. L’album dei calciatori della Panini era quello più reclamizzato ed anche quello più richiesto da tutti i maschietti; a me non interessava più di tanto, lo prendevo solo per poi regalare quei due pacchetti ai compagni di classe che mi erano più simpatici. Un giorno la solita persona addetta alla distribuzione degli album omaggio venne letteralmente presa d’assalto dai miei coetanei e compagni di scuola, quando giunse il mio turno era rimasto solo un tipo di album, credo si chiamasse “il mondo sommerso”, o qualcosa del genere; era una raccolta di figurine di tutte le forme di vita, marine e d’acqua dolce…………...… bé, dopo qualche mese lo avevo finito di completare e fù anche l’unico album che completai.
Il secondo episodio avvenne un paio d’estati dopo; ritornati per un breve periodo di vacanza nella mia città natale fummo invitati una domenica da un collega di mio padre nella sua casa al mare; per farmi divertire e giocare un po’ in compagnia di suo figlio mi portò in cantina alla ricerca di un pallone.
Trovai il pallone su un secchio di plastica, lo sollevai e i miei occhi si posarono sul contenuto del secchio: c’erano due grosse tavolette di sughero su cui era avvolto del filo di nylon, un piombo e due ami, più una serie di piombi di riserva ed una intera scatoletta d’ami della lion d’or.
Ricordo che capii a cosa servissero immediatamente, ma chiesi ugualmente cosa fossero; lui mi spiegò che erano lenze per la pesca a bolentino, le aveva acquistate tempo prima ed usate solo un paio di volte e poi abbandonate in cantina perché andare a pescare non gli piaceva molto.
Continuai con una serie di domande ed alla fine giunsi allo scopo che segretamente dentro di me speravo dal momento stesso in cui avevo sollevato quella palla: uscì da quella cantina con in mano il secchio e tutto il suo contenuto.
Le mie giornate al mare quella estate furono magnificamente diverse dal solito, mentre gli altri bambini della mia età scavavano buche e facevano castelli di sabbia io ero impegnato con un piccolo retino nel cercare di catturare, tra gli scogli, gamberetti e piccoli paguri da “impalare” su quegli ami.
Quando gli altri erano tutti a farsi il bagno nelle loro ciambelle io, poco più in là e con l’acqua sino alla vita, cercavo di pescare con quella grossa lenza avvolta sul sughero.
Al ritorno a Roma i sintomi di questa “malattia” non diminuirono anzi; mi rivolsi all’edicolante di zona per sapere se esisteva qualche rivista che parlasse di pesca… ed una c’era; era un quindicinale con un impaginazione diversa dalle attuali riviste, simile a quella dei quotidiani, con qualche foto in bianco e nero, report ed informazioni sulle tecniche di pesca; mi pare si chiamasse il giornale dei pescatori. Per parecchi anni non persi mai una sola uscita.
La mia prima licenza di pesca la ottenni compiuti i 14 anni, prima non era contemplato dalle disposizioni legislative, si poteva andare senza licenza solo se accompagnati da un adulto che ne possedeva una… e mio padre non ne aveva.
Il periodo precedente non fù però un periodo senza pesca; seppi che a pochi chilometri da casa, e raggiungibile in autobus, esisteva un laghetto a pagamento con le trote iridee. Costrinsi (..costringere è proprio il termine giusto) mio padre per le prime volte ad accompagnarmi in quel lago. Prendevo in prestito dal gestore delle cannacce in bambù lunghe 3-4 metri montate con una lenza da far rabbrividire, la classica scatolina di vermi e, mentre mio padre leggeva il giornale, io passavo le quattro ore del turno di pesca non solo cercando di catturare qualche trota ma osservando, con più attenzione possibile, gli altri pescatori e le loro attrezzature.
Poi venne il giorno dei miei 14 anni…. indimenticabile… perchè quel giorno, come ho già accennato, ottenni i due regali più belli di tutti quelli avuti nei 47 compleanni che ho festeggiato sino ad ora.
La mia prima vera canna col mulinello e la licenza di pesca.

martedì 3 giugno 2008

IL LAGHETTO DI ANTONEDDU E "ZIRIPICCA" - III° parte

Mi posiziono approssimativamente in mezzo alle due piante e, visto che l’intrico dei rami si trovava poco al di sotto della superficie dell’acqua, cerco un nuovo artificiale galleggiante; in una scatolina trovo uno strano popper della storm mai provato prima e di cui ignoravo quasi l’esistenza, un’imitazione di un grosso insetto, una specie di gigantesco grillo con la bocca aperta dipinta di giallo.
Intanto che ero impegnato nello scegliere e nel montare la nuova esca il gregge si era impadronito di quasi tutta la sponda, lasciando libero per qualche metro solo il punto in cui mi trovavo.
Con la coda dell’occhio vedevo quel ragazzo, ad una decina di metri da me, che mi osservava incuriosito ed un po’ accigliato quasi come si guarda una persona che in quel posto, in quel posto che forse considerava solo suo, non avrebbe dovuto esserci.
Indirizzai il lancio cercando di far arrivare quel popper nel corridoio tra i due alberi, poco oltre gli ultimi rami. Ci riuscii in parte perché l’artificiale toccò la superficie dell’acqua un po’spostato a sinistra e poco oltre i rami del primo albero.
Aspettai la sua completa immobilità, recuperai il filo in bando e con la punta della canna iniziai con i primi due colpetti….pop-pop…. ed il popper si rianimò sulla superficie del lago. Attesi che l’acqua riacquistasse la sua immobilità, recuperai un altro po’ di filo e….pop, il primo colpetto…mentre contemporaneamente il mio sguardo si spostava verso quel ragazzino che adesso si era seduto su un tronco e con aria apparentemente preoccupata osservava il mio popper nel lago…Pop, secondo colpetto a cui immediatamente dopo segui un potente sciacquio e la canna quasi mi sfuggì dalle mani.
Un grosso black bass aveva fatto tutto da solo. Mentre io osservavo quel ragazzo un enorme persico era salito da sotto quell’intreccio di rami aveva afferrato quel grosso grillo finto ed era tornato giù, al riparo dell’albero, autoferrandosi.
La frizione del mio mulinello era tarata il giusto ed alcuni metri di monofilo vennero rilasciati immediatamente sotto la potente fuga del pesce. La punta della mia canna ora sfiorava l’acqua; l’attrezzatura con cui stavo pescando era al limite per un pesce del genere in più la situazione con cui dovevo fare i conti era molto complicata, anzi oserei dire “ramificata”.
Dopo la prima fuga il pesce si fermò, era ormai arrivato nei pressi della sua tana; la canna era ancora piegata ma la frizione non cantava più. Non sapevo cosa fare, avevo il timore di forzare il pesce e la mia paura non era certo solo quella di perderlo ma capivo che c’era la possibilità che la lenza si spezzasse e lui potesse rimanere attaccato ad un ramo a dibattersi sino alla morte.
Furono momenti d’attesa interminabili sino a quando la tensione sulla canna cominciò a diminuire ed il filo ad allontanarsi verso il centro del lago: il black aveva deciso di salire e combattere in superficie. Fù un combattimento fatto di salti e brevi ma potenti fughe laterali, poi pian piano lo avvicinai nei pressi della riva.
Era un pesce stupendo, mai visto un black bass così grosso, forse in qualche foto sulle riviste, ma dal vivo ed a pochi metri da me non mi era mai capitato prima.
Entrai per qualche metro in acqua per riuscire ad afferrarlo con la mano per la mandibola superiore; non so come feci ma ci riuscii. Le mie dita sparivano nella sua bocca enorme mentre lo portavo a riva, era talmente grande che poteva tranquillamente contenere il mio pugno sino al polso.
Le due ancorette del popper avevano fatto una buona presa nel palato e mi ci volle un pò di tempo e delicatezza nel toglierle. Intanto il ragazzino si era avvicinato a pochi passi da me continuando a fissare tristemente il grosso pesce.
Rimasi per qualche secondo ancora ad ammirare quell’esemplare stupendo, poi mi avvicinai nuovamente alla riva e lo rilasciai; pigramente il black bass si allontanò verso l’albero sommerso poi, con un potente colpo di coda, sparì.
Mentre lo stavo rilasciando immaginavo già i pensieri di quel ragazzino forse non abituato a tutto questo, magari stupito che un matto come il sottoscritto prima catturi un pesce del genere e poi, invece di portarlo a casa e metterlo in forno, lo liberi. Ma lo stupore invece fù il mio quando, incrociando il suo sguardo, vidi i suoi occhi brillare e la sua bocca aprirsi in un enorme sorriso. Rimanendo sempre un po’ distante da me e con quel bellissimo e contagioso sorriso stampato sul volto mi parlò ringraziandomi per aver ridato la libertà a quel pesce.
Fatto quel primo passo ci sedemmo sui ceppi e cominciammo a chiacchierare.
Aveva solo 13 anni ed il suo nome era Antonio ma tutti, in famiglia ed in paese, lo chiamavano Antoneddu. Quest’anno, finita la scuola, era toccato a lui badare al gregge in quanto il fratello maggiore, che se ne occupava prima, era stato assunto nella squadra antincendio per tutto il periodo estivo.
Mi disse che io ero il primo pescatore con la canna che incontrava qui al lago, quasi sempre deserto a parte un vecchietto del suo paese che ogni tanto in bicicletta veniva per cercare di catturare qualche carpa a fondo pescando con una lenza a mano; ma erano più le volte che le carpe non gli abboccavano e, se qualche volta lo facevano, gli portavano via tutta la lenza.
Mi spiegò che un paio d’anni fa pesci grossi come quello di oggi ve ne erano diversi nel lago, non molti ma un buon numero. Alcuni cacciatori di un paese vicino se ne accorsero, ritornarono di notte e per più notti con le reti e ne catturarono molti insieme anche a parecchie carpe. Quel grosso black era uno dei pochi che si era salvato forse perché aveva scelto come tana proprio quegli alberi sommersi.
Antoneddu aveva scoperto la tana del pesce una mattina di maggio quando una grossa cavalletta, per una folata di vento, era finita in acqua in quel punto e subito era apparso quell’enorme boccalone.
Da quel giorno Antoneddu tutte le mattine che scendeva con le pecore al lago passava il proprio tempo nel cercare di catturare grilli e cavallette nel prato, poi si sedeva sul tronco gettando un insetto alla volta in acqua; ad ogni lancio sistematicamente appariva in superficie il grosso predone.
Antoneddu alla fine mi confidò candidamente che aveva anche dato un nome al grosso persico trota, al “suo amico” pesce, lo chiamava “ziripicca” che nel dialetto del suo paese stava ad indicare proprio la cavalletta, quell’insetto di cui il pesce sembrava ghiotto.
Sinceramente non so quanto raccontato quel giorno da Antoneddu corrispondesse a verità e quanto fosse invece solo il frutto della sua fervida fantasia sta di fatto che nelle successive estati passate in Sardegna io non sia più ritornato a pescare in quel laghetto…….mi sarei sentito solo un intruso, ed avrei soltanto ottenuto di cancellare, forse per sempre, il ricordo di quel bellissimo incontro, di un bambino, delle sue fantasie e del suo amico pinnato.

IL LAGHETTO DI ANTONEDDU E "ZIRIPICCA" - II° parte

Parcheggio nel luogo che mi è stato indicato, indosso il gilet, prendo la canna con il mulinello e mi avvio verso il sentiero che mi era stato pazientemente e più volte descritto.
Ormai è giorno fatto, sono le 06.00 ed è già da 10 minuti buoni che cammino tra i boschi quando il sentiero comincia a scendere e inizio a scorgere tra gli alberi i primi bagliori del riverbero della luce sull’acqua; qualche decina di metri ed il laghetto mi appare in tutto il suo splendore.
Circondato da querce per un buon ¾ della sua circonferenza, il resto è invece occupato da una parete di roccia a strapiombo sormontata da un fitto boschetto di piccoli abeti; sotto alla parete di roccia si estende una piccola lingua di massi che collega la parete stessa con una enorme roccia che emerge da quelle acque di uno stupendo colore verde smeraldo, e che è a sua volta circondata da un fitto canneto e da un tappeto di alghe che emergono sulla superficie del lago.
Dalla mia posizione leggermente rialzata posso studiarne tutto il perimetro e subito mi balza all’occhio la certezza che quel punto è sicuramente irraggiungibile da riva se non in belly-boat, ed è un vero peccato perché le mie sensazioni di pescatore-predatore erano più che positive.
Scartato a malavoglia quel tratto osservo meglio il resto e purtroppo capisco che anche in buona parte della sponda opposta è quasi impossibile pescare perché sotto le querce si trovano immense macchie di rovi delle more, un muro di spine che occupa la riva sino ad entrare nell’acqua e non si notano a prima vista tracce di sentieri per attraversarle e del resto, anche ci fossero, come farei io a saperlo?
Solo il tratto che si trova alla fine del sentiero in cui mi trovo è parzialmente sgombro da rovi; un paio di grosse querce sono cadute in acqua, si scorgono a malapena alcuni loro rami sotto la superficie. I tronchi rimasti sulla riva però presentano un taglio netto e da questo capisco che sono stati volutamente tagliati; anche i rovi sono stati tagliati per una cinquantina di metri, rami e spine ormai secchi si trovano ammucchiati ai margini di un folto canneto sulla destra lasciando il loro posto ad un sottile tappeto di erbetta verde, a qualche masso ed a diversi ceppi di quercia.
In definitiva non mi posso lamentare, ho un discreto spazio per provare a pescare.
Dopo aver memorizzato la posizione delle piante cadute sul fondo del laghetto effettuo il primo lancio con un minnow galleggiante, lancio che dà immediatamente i suoi frutti: un black bass di 25 cm. afferra l’imitazione in balsa qualche attimo dopo la sua caduta in acqua; di abboccate del genere nella prima mezz’ora ne avrò diverse ma tutti i persici trota, catturati ed immediatamente rilasciati, saranno come taglia simili al primo.
Incomincia a prender forma nei miei pensieri ciò che temevo, e che spesso accade in alcuni bacini artificiali in Sardegna, l’abbondanza di esemplari della stessa specie e la scarsità di cibo a disposizione non ne favorisce l’accrescimento tanto da dar luogo a veri e propri fenomeni di nanismo.
Però le mie sensazioni dicono anche che questo potrebbe essere un posto speciale, magico oserei dire data la sua bellezza, ed allora incomincio con la giostra degli artificiali: un paio di lanci, una cattura di un persico di 300 gr. e cambio di artificiale.
Minnow countdown di diversi centimetri e di diverse colorazioni si alternavano a minnow galleggianti ed a lunghi e sinuosi vermoni siliconici innescati su grossi ami del 2/0 ma i risultati, a parte un black bass di circa 600 grammi, non cambiavano.
Ero ormai ai margini del canneto, un po’ sfiduciato quando un suono caratteristico, e da me già conosciuto, fece sparire del tutto quelle poche speranze a cui restavo ancorato.
Per alcuni potrebbe apparire solo come un dolce scampanellio accompagnato da leggeri belati, per un pescatore su un lago piccolo come questo, e con una sola parte di sponda accessibile ricoperta da un bel praticello di erba fresca, quei suoni segnavano la fine della pescata.
Il gregge di pecore scendeva lungo lo stesso sentiero da me percorso ed in pochi minuti sarebbe giunto sino al lago per occupare tutta la sponda, abbeverarsi e brucare l’erbetta della riva; ora finalmente capivo chi e perché aveva tagliato gli alberi ed i rovi.
Conoscendo gli usi della zona la mia prima preoccupazione fù quella di vedere se il gregge fosse accompagnato da un pastore perché molto spesso ciò non accadeva e ad accompagnare il gregge invece erano solo dei grossi cani maremmani ai quali la presenza di uno sconosciuto, in un posto in cui magari erano abituati a non incontrarne mai, poteva portare a comportamenti più che offensivi.
Finalmente dopo una cinquantina di pecore, e nessun avvistamento di cani, intravedo una minuta ed esile figura umana poco più di un bambino, allora mi tranquillizzo e mi incammino per gli ultimi lanci verso la zona con le querce in acqua.

IL LAGHETTO DI ANTONEDDU E "ZIRIPICCA" - I° parte

Le 05.00, dopo aver bevuto una tazza di caffè sono pronto ad uscire da casa.
Di solito quando mi alzo presto per andare a pesca l’adrenalina sale già al primo trillo della sveglia posta sul comodino, non certo come quando devo recarmi al lavoro che di sveglie devo programmarne almeno un paio a qualche minuto di distanza una dall’altra e, se ciò non bastasse, c’è anche quella sul comodino di mia moglie che suona una mezz’oretta dopo. E già… pur uscendo insieme per recarci nello stesso luogo di lavoro il sottoscritto tutte le mattine ha un’incombenza in più, quella di portare a spasso la nostra adorabile cagnetta.
Questo è uno di quei compiti che le mogli spesso e volentieri delegano, soprattutto quando tutto ciò dà loro la possibilità di restare ancora un po’ a crogiolarsi nel letto o concedere qualche minuto in più alla loro immancabile “ristrutturazione facciale mattutina”.
Oggi non c’è stato bisogno nemmeno di aspettare il suono della sveglia, ero già in piedi dieci minuti prima dell’ora che avevo prefissato; poi è bastato aprire il portoncino della villetta perché la piccola westie si precipitasse trotterellando in cortile per le sue esigenze fisiologiche.
Magari fosse sempre così; in città e nel nostro appartamento all’ottavo piano tutto questo non sarebbe stato possibile; ma oggi è un giorno di ferie, sono con la famiglia in vacanza nella casa di proprietà di mia moglie, con annesso cortile e giardino, ed anche la mia cagnetta ne è felicemente consapevole.
L’attrezzatura è già in macchina; non è molta perché oggi è una mattinata dedicata allo spinning quindi canna hawk in due pezzi della fenwick con annesso shimano gtm 4000 ed un gilet mimetico con i tasconi stracolmi di scatolette di artificiali: minnows, poppers e gli immancabili vermoni siliconici.
Non ha piovuto, qui purtroppo non piove da ormai molti mesi e quest’anno in particolare la mancanza d’acqua è un problema sentito da tutti gli esseri viventi, piante, uomini ed animali, ma la mia auto è lo stesso completamente bagnata e con i vetri appannati.
L’escursione termica tra il giorno e la notte, che d’estate si ha in questa zona, è di diversi gradi e non mi sorprende il fatto che la temperatura, segnata dal termometro nella mia auto, fosse oggi di soli 6 gradi. E’ anche vero che mi trovo nella zona del Mandrolisai ad 800 metri di altezza sul livello del mare e tra i monti della Barbagia e qui, altezza a parte, sono gli immensi boschi di querce, di sugheri e ultimamente di conifere piantate dalla provincia per il rimboschimento di quei tratti di bosco bruciati più o meno casualmente, che determinano questo tipo di clima.
Prima di sedermi al volante dell’auto mi godo ancora un po’ questa umida temperatura perchè so già che da qui a qualche ora il termometro comincerà inesorabilmente a salire e l’aria a farsi più secca; se la giornata si presenterà senza vento, come è accaduto ieri, la temperatura potrebbe superare anche i 34°, e sarebbe anche normale visto che oggi è il 2 agosto.
Accendo il motore pregustandomi già il viaggio tra le piccole stradine nei boschi dove il buio rimarrà ancora presente per un po’ anche se l’alba sta ormai sorgendo. Sarà un viaggio di andata quasi tutto in discesa visto che il posto in cui dovrò recarmi si troverà ad un livello di altitudine molto più basso rispetto al paese da dove sto partendo.
E’ un posto nuovo in cui non ho mai pescato; mi è stato consigliato ieri da un cugino di mia moglie che vi si è recato a caccia in primavera, mi ha detto che ha visto saltare delle carpe, a suo dire, gigantesche ed ha notato la presenza di altri pesci, forse delle trote secondo lui, ma dalla descrizione che mi ha fornito ho perfettamente intuito che quei pesci da lui scorti a galla altri non erano che persici trota.
Solitamente i sardi dell’entroterra, si sa, sono un popolo di allevatori il cui passatempo preferito è la caccia, soprattutto quella al cinghiale, mentre la pesca in acque interne non è che li attiri molto; a parte qualche pescatore occasionale di carpe, pesci che sistematicamente poi finiscono sulla griglia a cuocere, in questo piccolo paese ed in quelli vicini i pescatori si possono veramente contare sulla punta delle dita.
E dire che, di corsi d’acqua e di laghetti molto suggestivi, la zona ne è piena.
Regno della trota macrostigma presente nei torrenti più impervi e difficilissima da incontrare ed ora, colpa anche di questi ultimi anni di grande siccità, praticamente introvabile anche nei tratti di torrente più conosciuti ed in cui si era certi della sua presenza ridotti ormai a piccoli rigagnoli d’acqua.
Anche gli invasi della zona stanno risentendo del periodo di secca ma certamente in modo inferiore.
Per la proverbiale carenza d’acqua, e per la produzione di energia idroelettrica, su ogni corso d’acqua della Sardegna sono stati creati diversi bacini artificiali tramite la realizzazione di dighe, questo per permettere ad ogni paese o almeno ad un gruppo di paesi limitrofi, di avere il proprio piccolo invaso di raccolta per le esigenze legate all’agricoltura, all’allevamento o semplicemente alle attività quotidiane.
Sono sorti così, accanto ai grandi bacini artificiali come il lago Omodeo, una moltitudine di piccoli laghetti qualcuno dei quali non presente nemmeno sulle più aggiornate cartine stradali; delle autentiche perle incastonate tra i monti e circondate dai boschi.
Ed è verso uno di questi gioielli che io mi sto recando; un piccolissimo e profondo invaso, utilizzato come bacino di raccolta per le emergenze idriche e alimentato da una parte di acqua utilizzata da una centrale dell’enel e convogliata tramite uno stretto canale artificiale creato appositamente tra le montagne. Molto difficile da raggiungere e sconosciuto a quasi tutti, abitanti delle zone limitrofe e cacciatori a parte.

domenica 18 maggio 2008

NUOVA PESCATA SUL TEVERE

Finalmente qualche ora libera di sabato mattina...dopo un paio di settimane di stress...ed allora ne ho approfittato e mi sono recato a verificare se i primi caldi di primavera avevano risvegliato definitivamente dal letargo i miei "amici" barbi.

Meta della mia pescata mattutina è sempre il tratto tra i due ponti storico-sportivi del tevere......e decisamente la primavera è arrivata anche sul "biondo", visto il completo risveglio della natura........spettacolo solo per "appassionati" e per quei pochi che amano questo fiume.... al contrario di chi non trovasse niente di meglio che il disprezzarlo pubblicamente senza nemmeno mai averlo visto o non avendolo mai "vissuto" pienamente abitando a centinaia di Km. di distanza....ma ancor peggio sarebbe se a criticarlo fosse invece chi è anche nato nella "Caput Mundi" ed ancora ci vive o ci lavora.....
..........Queste sono le acque che scorrono tra la "Storia"...... in cui scorre la "Storia".....sulle cui rive è nata la civiltà nell'occidente.......... questo è il FIUME.





Debbo ritenermi molto soddisfatto della pescata mattutina visto che i miei "amici" pinnati hanno dimostrato il loro pieno risveglio....


alcune foto che immortalano qualcuna delle tante catture.
























lunedì 12 maggio 2008

IL MULINELLO A BOBINA FISSA : parte VII°- pulizia e manutenzione

PULIZIA e MANUTENZIONE

Ognuno di noi auspica per la sua attrezzatura da pesca un lungo periodo di vita e di corretto funzionamento; bisognerà però mettere in atto delle piccole accortezze supplementari, oltre ad un uso corretto e un’attenzione contro errate manovre o urti più o meno accidentali.
Dopo l’uso del mulinello in acque salse, ad esempio, una buona pulizia con acqua dolce e panno asciutto evita alla parte esterna dell’attrezzo di rimanere a contatto con il sale marino.
Molti consigliano di separare bobina e corpo ed immergerli in acqua dolce anche per un’ora…..io non lo faccio mai!!!
L’acqua potrebbe penetrare, tramite alberino o manovella, anche all’interno degli ingranaggi e lì asciugarsi col tempo lasciando dei residui….sappiamo quanto sia “dura” e trattata l’acqua potabile nelle nostre città; ancor peggio sarebbe farla penetrare all’interno del sistema frizione e bagnare i dischi, sia in quella anteriore che posteriore…..ci costringerebbe a smontare ed asciugare i dischi medesimi troppo spesso o lasciarli bagnati ad asciugare da soli nelle loro sedi con l’alto rischio di deformazioni strutturali che comporta il bagnare troppo delle sottili rondelle, se di cuoio o feltro.
Le bobine che montano la maggioranza dei mulinelli sono di tipo coprente; cioè proteggono, da possibili contatti con polveri sabbia ed altro, l’alberino e la parte interna del rotore quindi meglio lasciarle montate senza nemmeno svitare la manopola della frizione e del cambio bobina, in special modo nei mulinelli a frizione anteriore.
Il sottoscritto per pulirli dopo ogni pescata in ambiente salso non smonta nulla ma, o con una rapida passata sotto un leggero getto della doccia o meglio ancora con uno straccio bagnato, strizzato e che non lasci residui, pulisce la parte esterna (bobina con monofilo compresa) accuratamente; un altro panno asciutto mi servirà alla fine per asciugarli (nel caso abbiate possibilità sarebbe utile asciugarli con aria compressa a pochissimi bar di pressione).
La salsedine oltre a poter danneggiare il nostro attrezzo riduce anche la vita del monofilo; molti sostengono che immergere la bobina in acqua dolce con una piccola quantità di leggero detergente possa sciogliere e pulire dai residui di sale il filo imbobinato……ho spiegato prima le ragioni per cui non faccio mai questa operazione che oltretutto ritengo inutile anche per il monofilo; l’acqua salata penetra talmente in profondità tra le spire e, dopo evaporazione, lascia dei depositi difficilmente raggiungibili ed ancor più difficilmente eliminabili con queste operazioni. Si potranno eliminare i residui sulle prime decine di metri di spire del monofilo ma mai su tutto il nylon imbobinato, per questo consiglio di cambiare spesso il filo se lo utilizziamo principalmente per la pesca in mare (ogni 5-8 pescate); in quel frangente, a bobina completamente libera, possiamo pulire in maniera più appropriata e definitiva la stessa prima di riavvolgere il filo nuovo.
Ogni libretto d’istruzioni presente nella scatola dei mulinelli (anche in quelli di fascia più economica) riporta dettagliatamente i punti precisi in cui si dovrà provvedere alla lubrificazione ed all’ingrassaggio.
Il mulinello è un po’ come il motore di un’autovettura ( ritorno al paragone iniziale….) dove è consigliato sostituire l’olio ogni anno o dopo un tot di km. percorsi; questa operazione infatti dipende dal suo utilizzo più o meno assiduo.
Consiglio perciò di provvedere a lubrificare almeno ogni anno (se non due volte l’anno) i punti descritti sul libretto (alcuni mulinelli sono dotati di tappo a vite o sportellino per la lubrificazione anche dei meccanismi interni senza dover smontare il mezzo guscio); ed almeno ogni due anni effettuare una pulizia generale ed un ingrassaggio nuovo dei meccanismi interni, dopo aver accuratamente eliminato prima tutto il grasso vecchio.
Per fare questa operazione bisogna avere una certa conoscenza della meccanica, una certa manualità ed usare prodotti solventi e grassi idonei.
Visto che quest’articolo è espressamente rivolto al neofita il mio consiglio è quello di portare il mulinello (specialmente se un attrezzo di pregio) ad una revisione biennale tramite assistenza.
Non mi sento di darvi informazioni su come smontare un attrezzo (che tra l’altro ha meccaniche molto spesso diverse da modello a modello e da marca a marca), come pulirlo ed ingrassarlo e quali prodotti usare, generici o particolari che siano; sovente sono già le case costruttrici che consigliano l’uso di loro prodotti specifici…..spesso un uso errato di un solvente, di un tipo di grasso, o un non corretto rimontaggio può pregiudicare la funzionalità di un costoso mulinello e quindi la validità della sua garanzia.
Il mio consiglio è, nel caso dobbiate aprire il guscio (o guancia) di un mulinello o svitare qualsiasi altra vite esterna, di non forzarla mai se bloccata ma utilizzare appositi prodotti (tipo Svitol o CRC) che permettono lo sciogliersi delle incrostazioni esterne così da non rovinare irrimediabilmente la testa della vite stessa o il suo passo; in questo modo siete certi che una volta riavvitata per benino al suo posto i gusci, o le parti smontate, combaceranno perfettamente rendendo stagni e protetti i delicati meccanismi interni.

IL MULINELLO A BOBINA FISSA : parte VI°- mulinelli a bobina coperta

I MULINELLI A BOBINA COPERTA


Un ultimo accenno volevo farlo sui mulinelli coperti a bobina fissa; questi modelli, nati soprattutto per la pesca alla passata ed alla trota torrente, sono in genere medio-piccoli o piccoli.
Quelli per trota torrente in realtà possono considerarsi dei semplici raccoglitori di filo non adatti per lanci lunghi o veloci recuperi, con piccolissime bobine e di bassissima capienza proprio perché hanno un piccolo volume e peso contenuto; anche i materiali saranno di media qualità con frizioni molto spartane. Servono solo per avere una riserva di filo in caso di corte passate sotto canna e per non appesantire ulteriormente le lunghe canne teleregolabili.
I mulinelli coperti realizzati per la pesca a bolognese a passata in fiume invece hanno una cerchia di estimatori, ristretta ma fedelissima; un classico rappresentante di questi attrezzi è il vecchio ma sempre ricercato Crack Contact 400 con doppia frizione, una classica ed una a leva, ora prodotto e distribuito da Milo col nome di Tact 5403.
Questo tipo di mulinello ha una buona meccanica, una discreta capacità in bobina, un basso rapporto di recupero, non presenta né rotore né archetto convenzionale ma ha il filo che fuoriesce da una apertura sulla circonferenza della capsula che copre la bobina.
Il sistema di avvolgimento è similare, anche se un po’ diverso; la manovella agisce direttamente sull’alberino interno, a cui è avvitato il copribobina, mentre il movimento oscillatorio della bobina è dato da un supporto apposito aggiuntivo. L’alberino girando fà al contempo girare anche il copribobina (che fa le veci del rotore) che è a sua volta dotata di un perno a scomparsa in sostituzione del rullino guidafilo (mezzo giro di manovella all’indietro ed il perno rientra nel copribobina lasciando libero il filo per il lancio) il quale permette un corretto riavvolgimento del filo sulla bobina interna. La prerogativa di questi mulinelli è quella di ridurre al minimo la possibilità di parrucche nel filo, che di solito viene montato in diametri molto sottili, e preservarlo al contempo dalla luce e da possibili contatti accidentali con la vegetazione fluviale o con la sabbia.

IL MULINELLO A BOBINA FISSA : parte V°- la bobina ed il telaio (chassis)

LA BOBINA e il TELAIO (chassis)

La bobina è un altro elemento molto importante in un buon mulinello ed è giusto spendere qualche parola e qualche consiglio in più.
Il primo consiglio è quello di scegliere i modelli di mulinello che forniscono a corredo due o più bobine ( acquistarne una in più in un secondo momento comporterebbe un costo, in alcuni casi, molto alto e spropositato rispetto a quello iniziale del mulinello stesso) in modo tale da consentire un cambio veloce per poter utilizzare il nostro attrezzo anche con fili di diverso diametro.
Meglio sarebbe se le bobine a corredo avessero capacità diverse tra loro ( ma forse siamo molto esigenti e dovremmo accontentarci), mantenendo al contempo le stesse caratteristiche di peso volume e materiale, in modo da non dover creare uno spessore sottostante o dover imbobinare centinaia e centinaia di metri di filo nel caso volessimo utilizzare nylon di sottile diametro.
Sarebbe anche opportuno che le bobine di ricambio fossero sempre dello stesso materiale (quindi peso, volume e struttura) della bobina già montata a corredo sul mulinello per non trovarci poi, sostituendola con le altre di diversa composizione, con sbilanciature dell’attrezzo o sue oscillazioni.
Le bobine sono tutte dotate di clip ferma lenza per non consentire un’accidentale fuoriuscita del filo durante il trasporto; stampigliato in maniera indelebile lungo la circonferenza hanno anche diverse misure sulla loro capacità di imbobinamento dei monofili con diverso diametro; queste informazioni di solito appaiono con doppia unità di misura: metri e yard ( nel caso fossero espressi solo in yard, sapendo che 1 yard equivale a 0,9144 metri, è facile fare i conti).


In questi ultimi anni con i nuovi materiali a disposizione progettati per usi aeronautici ed aerospaziali le case costruttrici, per via della concorrenza tra loro sul mercato, hanno creato bobine in leghe sempre più leggere e resistenti migliorando anche la loro progettazione ed adeguando la forma e la struttura alle molteplice tecniche di pesca per cui ogni specifico attrezzo viene costruito…..e a noi questo non dispiace per niente.
Nei modelli di prima generazione le bobine erano realizzate in metallo, lo stesso materiale che costituiva il corpo (telaio, guscio, o chassis) del mulinello; facilmente intuibile perciò l’elevato peso di questi attrezzi ed oltretutto, a dispetto dei materiali altamente rigidi e pesanti, molto delicati per fenomeni di ossidazione e corrosione.
In seguito le bobine furono realizzate in materiale plastico più o meno pesante (per i mulinelli di fascia economica ancora in uso) ma facilmente intaccabile dallo sfregamento continuo con il nylon e facilmente deteriorabili col tempo per il contatto con il sale e deformabili dal calore, sino ad arrivare all’utilizzazione di materiali leggeri e resistenti come la grafite e l’alluminio.
Come detto prima la realizzazione di nuovi materiali leggeri e resistenti e le nuove leghe a disposizione hanno portato innovazioni notevoli anche nella pesca sportiva, non solo nel settore delle canne da pesca ma anche nella realizzazione dei mulinelli e delle bobine in particolare.
Le nuove resistentissime e leggerissime leghe di alluminio e titanio, o alluminio e magnesio, con l’aggiunta di strati di zirconio (materiale chimico altamente resistente a tutti i fenomeni di corrosione) sono state utilizzate in principio per la realizzazione delle bobine dei mulinelli di pregio e di altissimo costo, in seguito anche per i mulinelli di buona fattura ma di fascia medio-alta…..quelli con più mercato.
Non solo i materiali di costruzione delle bobine si sono evoluti ma anche la loro forma è stata modificata adattandola per ottenere prestazioni sempre migliori.
Arrivando a realizzare bobine forate in lega, tipo groviera, per alleggerirle ulteriormente contenendo così il peso complessivo del mulinello.
Conferendo loro altezze atte ad un maggiore possibilità di caricamento dei monofili (o dei trecciati di ultima generazione e di grande utilizzo), senza dover ricorrere più alle profonde ma corte bobine a cui eravamo abituati, che se da una parte consentivano di imbobinare grandi quantità di lenze di grosso diametro dall’altra ostacolavano la corretta fuoriuscita del filo in fase di lancio.
Realizzando anche conicità tali da permettere la più perfetta fuoriuscita delle spirali di filo …ottenendo dei risultati irraggiungibili prima.
Le bobine con queste caratteristiche rivoluzionarie, associate anche con i nuovi sistemi di oscillazione a doppia velocità dell’alberino di cui sono corredati i mulinelli di oggi che permettono un perfetto riavvolgimento a spire incrociate della lenza senza più alcuna possibilità di accavallamento delle spire, agevolano ancora di più la corretta fuoriuscita del monofilo nella fase del lancio permettendo di raggiungere facilmente notevoli distanze.
Mulinelli con sistema di avvolgimento a doppia velocità corredati con alte bobine ultraconiche fanno ormai parte della dotazione di molti pescatori che praticano le tecniche del surfcasting, carpfishing e spinning.
Come già accennato anche il telaio del mulinello ha avuto la stessa evoluzione nei materiali utilizzati passando dal ferro ai polimeri di plastica sino ad arrivare alla grafite ed alle leghe di metalli leggeri e resistenti.
Nel caso del corpo in lega c’è da prestare molta attenzione al tipo di verniciatura e di trattamento anticorrosivo utilizzato, alle viti di chiusura (che siano inattaccabili dalla ruggine ed indeformabili), ed alle giunture di congiunzione dei due gusci (che combacino perfettamente e non presentino nessuna feritoia o spazio in cui possa penetrare sabbia, polvere o acqua).
Alcune case garantiscono verniciature antigraffio ed anticorrosione, altre omettono di dichiararlo…… volutamente o no.
Capite da voi che un mulinello è soggetto ad urti continui, così come la vernice che lo ricopre sarà soggetta col tempo a graffiarsi inesorabilmente anche prestando la massima cura ed attenzione nel suo utilizzo, quindi scegliete i prodotti più sicuri o quelli più confacenti alle vostre possibilità economiche ma tenete sempre presente che un buon prodotto, se rispetta tutte le caratteristiche dichiarate, ha si un costo maggiore ma anche un’affidabilità ed una durata maggiore, come maggiore e sicura sarà la garanzia nell’assistenza e nel reperire pezzi di ricambio.
Un ultimo consiglio è quello di non far molto affidamento sulle sigle che identificano ed accompagnano i vari modelli di mulinello, ma bensì di leggere attentamente la capacità delle loro bobine ed il loro effettivo peso totale; spesso sigle come 2500, 4000, 5000 ecc., che stanno ad indicare la fascia di peso, di grandezza e di capacità di un attrezzo, non sempre sono simili in mulinelli di marche diverse; alcuni 4000 (come nella shimano) sono attrezzi dalle giuste dimensioni e capacità da poter essere impiegati con canne bolognesi di una certa metratura o con le match-rod per la pesca all’inglese (un 2500 della ditta sopra citata sarebbe forse un po’ troppo sottodimensionato..); mentre al contrario un 4000 della daiwa risulta essere un mulinello molto più voluminoso e con bobine più grandi, per volume e capacità, quindi adatto a tecniche più pesanti.

IL MULINELLO A BOBINA FISSA : parte IV°- la manovella

LA MANOVELLA

La manovella è forse l’elemento a cui il pescasportivo dà meno risalto nella valutazione d’acquisto di un mulinello pur essendo la leva che riveste la sua importanza sia per un corretto funzionamento che per una giusta bilanciatura del nostro attrezzo.
Essendo una leva è chiaramente sottoposta ad uso prolungato e forti sollecitazioni anche sotto trazione; di solito è inserita in un cuscinetto, e non in una boccola, proprio per consentire una migliore fluidità nel recupero e minor attrito.
I materiali di realizzazione sono i più disparati: dalle leghe metalliche leggere, ma fragili e non resistenti a temperature oltre i 50° come la zama, a leggerissime e resistentissime leghe di alluminio e titanio; anche i pomelli sono realizzati con diversi materiali che vanno dalla semplice plastica sino ad arrivare all’utilizzo di componenti anallergici in gomma sagomata o alla radica ed al legno. I pomelli hanno tutti al loro interno una boccola (anche in bronzo negli attrezzi di fascia medio-alta), inserita in un perno alla fine del braccio della manovella, in modo da poter ruotare su se stessi.
Quasi tutti i modelli di mulinello montano manovelle ambidestre ergonomiche; la possibilità di poterle smontare, e quindi rimontare dalla parte opposta, fa sì che il prodotto possa essere acquistato anche dai pescatori mancini. Spesso sono ripiegabili su se stesse tramite l’allentamento della vite a galletto od un perno ed un pulsante a molla, in modo da potersi avvicinare il più possibile al corpo del mulinello; nei modelli in cui questo non fosse possibile le case produttrici ovviano all’inconveniente adottando il sistema di consentire il ripiegamento almeno del pomello (che è la parte più delicata della manovella) sia per preservarne la struttura da urti accidentali che possono provocarne rotture o deleterie piegature che per un facile imballaggio e trasporto di tutto il mulinello.

In alcuni modelli con discreto rapporto di recupero vengono montate delle doppie manovelle, o meglio una manovella con due raggi e due pomelli; questa manovella innovativa incrementa notevolmente la bilanciatura del mulinello con una drastica riduzione delle vibrazioni.

IL MULINELLO A BOBINA FISSA : parte III°- la frizione

LA FRIZIONE



In linea di massima potremmo descrivere questo meccanismo semplicemente come un comunissimo freno con cui viene esercitata una pressione graduabile che, tramite una manopola a vite ed una molla che agisce per compressione su una serie di dischi di frenaggio, blocca o rallenta per aderenza (o “frizione” per l’appunto) la capacità di rotazione della bobina inserita nell’alberino in modo che il nylon possa essere rilasciato gradualmente rispondendo alla trazione del pesce senza spezzarsi.
La manovra di regolazione della frizione và fatta sempre tenendo conto del carico di rottura del monofilo imbobinato e sempre all’inizio dell’azione di pesca.
Nei mulinelli la frizione viene detta posteriore, quando è posta sulla base del corpo del mulinello, o anteriore quando è posizionata proprio nella parte superiore ed al centro della bobina.
Dire quale sia la scelta migliore tra le due possibilità non è cosa facile per me, in special modo perché ogni tipo di frizione ha i suoi estimatori ed affezionati sostenitori; chi reputa l’anteriore molto più affidabile e meno soggetta a disfunzioni dovute ad urti, granelli di sabbia o ad usura eccessiva, chi invece preferisce la posteriore perché più facilmente gestibile e manovrabile sotto la trazione del pesce.
Mi limiterò solo a descrivere sommariamente il meccanismo dei due tipi di frizioni che se per concetto sono simili, così come simili possono essere i materiali con cui sono realizzati i dischi di frenaggio, molto diverso è invece il modo in cui essi agiscono.
Nella Frizione Anteriore multidisco i dischi sono posizionati ed agiscono direttamente sulla bobina frenandone la rotazione per mezzo di una manopola che si avvita sull’alberino del mulinello; nella posteriore la serie di dischi sovrapposti invece agiscono direttamente sull’alberino del mulinello su cui in questo caso è bloccata la bobina; mulinello che avrà anche una meccanica leggermente diversa, così come leggermente maggiore sarà il suo volume ed il suo peso complessivo rispetto al suo omologo con F.A. Allentando la manopola posta alla base del corpo del mulinello si darà modo all’alberino di ruotare sul proprio asse in modo graduale e progressivo, a secondo di quanto si allenterà la tensione esercitata dalla molla, posta all’interno del blocco frizione, sui dischi.
Importante è conoscere il materiale con cui vengono costruiti i dischi di frenaggio; negli ultimi modelli di mulinelli di fascia alta i dischi vengono realizzati totalmente in carbonio di alta qualità ed in acciaio inox, alternando la loro disposizione in serie; ma tantissimi sono i materiali con cui possono venir realizzati: feltro, cuoio, teflon ecc., dovrete accertarvi sempre però che siano presenti almeno due dischi in acciaio nella serie, e non in ferro per il discorso sulla possibilità di formazioni di ruggine e di corrosione dovuta all’azione della salsedine.
Il loro numero ed il loro materiale varia in funzione non solo del tipo di mulinello ma chiaramente anche per la sua fascia d’appartenenza sul mercato, così come varia anche il metodo progressivo di avvitatura delle manopole; nei modelli migliori e più costosi si hanno frizioni micrometriche regolabili con minimi spostamenti della manopola caratterizzati da piccoli “click” (da qui il nome di micro-click)………………il concetto credo sia molto chiaro, “più spendi più hai dei materiali migliori ed affidabili”.
Negli ultimi anni sono usciti sul mercato molti modelli corredati da una doppia frizione anche se l’antecursore della doppia frizione, frizione posteriore e leva graduale che agisce direttamente sulla frizione principale, è il vecchissimo e mai sorpassato full controll della famosa casa francese Mitchell; pur essendo ormai arrivato alla 4° o 5° serie con un design rinnovato e diverso, il suo funzionamento tramite la leva che dà il nome all’attrezzo è rimasto pressoché invariato.
Altre case produttrici hanno poi immesso sul mercato diversi modelli di mulinelli corredati da una doppia frizione, come per esempio ha fatto la Shimano creando i modelli con leva da combattimento (fightin' drag).


La casa produttrice giapponese della Shimano è stata anche la prima ad aver ideato il sistema chiamato “bait runner” ( “esca che corre” ) molto apprezzato nel mondo del carpfishing e della pesca al siluro; anche altre case produttrici hanno poi copiato il sistema del bait runner affibbiandogli nomi diversi come “free spool” o “free runner”.

Oltre alla classica frizione questi mulinelli sono dotati di un altro dispositivo che per mezzo di una levetta disinserisce completamente la frizione principale e permette alla bobina di girare liberamente (…free spool) in modo che la carpa, il siluro o un grosso pesce possa fare la sua "partenza" con l’esca in bocca indisturbato senza avvertire resistenza alcuna.
Poi basterà agire lievemente sulla manovella del mulinello per disinserire automaticamente il dispositivo del bait runner, ripristinando la frizione principale tarata com’era all’inizio, consentendo così una sicura ferrata.

IL MULINELLO A BOBINA FISSA : parte II°- l'archetto e l'antiritorno

L’ARCHETTO

Una cosa che potete verificare, e vi consiglio di farlo prima dell’acquisto del vostro attrezzo, è assicurarvi della presenza di un cuscinetto in acciaio che riveste importanza fondamentale per l’integrità del vostro monofilo e quindi per l’esito finale di una lotta, che io vi auguro, con una grossa preda: la sua presenza all’interno del nottolino (o rullino) guidafilo posto sull’archetto del mulinello; solitamente negli ultimi modelli di fascia medio-alta il nottolino guidafilo viene montato in dimensioni maggiorate per consentire una guida, un controllo, ed un angolo migliore allo scorrimento del filo.
L’importanza funzionale dell’archetto e del materiale con cui è costruito, della molla di ritorno, e l’efficienza del blocco in fase di lancio sono altri meccanismi del mulinello a cui prestare la massima attenzione, provandone diverse volte il corretto funzionamento prima dell’acquisto.
Due prove potete effettuarle già nel negozio di pesca; la prima consiste semplicemente nell’aprire più volte, e di conseguenza nel richiudere l’archetto girando la manovella, per vedere se questo meccanismo presenti difetti o rallentamenti nel blocco e nello sgancio; importantissima è una chiusura immediata e senza forzature soprattutto in quei modelli di mulinello la cui utilizzazione preveda l’effettuazione di molti lanci consecutivi, quindi soventi aperture e chiusure, come nella tecnica dello spinning; ma direi che un funzionamento corretto dell’archetto debba essere sempre presente su qualsiasi tipo di mulinello.
Per la seconda prova dovrete montare il mulinello che desiderate acquistare su un corta canna o anche sul pezzo di una canna ad innesti che disponga di placca idonea (sicuramente presenti nel negozio di pesca), aprirne l’archetto e frustare il tutto come per effettuare un potente lancio: l’archetto del mulinello deve rimanere aperto e bloccato sino a che non siate voi a girare la manovella per sbloccarlo; un archetto che si dovesse chiudere improvvisamente su sollecitazione nel lancio capirete bene i problemi che può creare, non solo alla canna od al filo, ma anche a voi ed alle persone vicine.

L’ANTIRITORNO INFINITO

La levetta dell’antiritorno infinito è un altro elemento presente nel mulinello; questa levetta se sbloccata permette di girare la manovella, e quindi il rotore del mulinello, sia in senso orario che antiorario dando la possibilità non solo di avvolgere filo ma anche di cederlo; molti usano tenere la levetta sbloccata proprio per poter combattere le prede utilizzando esclusivamente la manovella o un dito per frenare la corsa del rotore sotto la trazione del pesce.
Nel caso di inserimento dell’antiritorno la manovella ed il rotore gireranno solo nel verso di avvolgimento del filo…….per contrastare ed assecondare le fughe del pesce agganciato interverrà in questo caso un altro elemento importantissimo e sempre presente nei mulinelli: la frizione.

venerdì 9 maggio 2008

IL MULINELLO A BOBINA FISSA : parte I°

Caratteristiche principali




Le caratteristiche fondamentali dei mulinelli a bobina fissa a cui possiamo porre un’attenzione immediata sono:
-Il materiale di costruzione: ad esempio se dovessimo acquistarne uno per utilizzarlo prevalentemente in mare dovrà avere un materiale adatto o trattato contro la corrosione dalla salsedine; i modelli di nuova generazione e di fascia medio-alta presentano tutti questa caratteristica quindi, spendendo il giusto, andremo sempre sul sicuro.
-Il loro volume ed il peso: per alcune tecniche come la bolognese, in cui dovremmo tenere la canna in mano per molte ore, la leggerezza del mulinello e la scelta giusta di abbinamento è di fondamentale importanza per non squilibrare una lunga canna e non appesantire tutto il complesso.
Per altre tecniche invece un materiale più robusto ed una meccanica più che affidabile, indi un attrezzo più pesante ed in genere più voluminoso, è indispensabile per l’utilizzo estremo a cui il mulinello può essere sottoposto, pensiamo per esempio allo spinning pesante e alla quantità di lanci e recuperi che si dovranno effettuare ogni ora e con esche a volte di un certo peso.
-La capacità della bobina: di contenere il monofilo che intenderemo utilizzare; è chiaro che all’aumentare della sua capacità aumenterà, di norma nel 90%, dei casi, anche peso e volume dell’attrezzo; solo in alcuni modelli avremo bobine capienti, perché più profonde del normale anche se di diametro ridotto, e montate su dei medio-piccoli mulinelli con un rapporto di recupero molto alto.
Quindi considero fondamentale dare una giusta valutazione a queste prime tre caratteristiche tecniche, di cui è facile ottenere un immediato riscontro, per indirizzarci verso una scelta corretta.
Un altro aspetto da tenere in considerazione è il già citato “rapporto di recupero” …altro non è che un semplice rapporto di moltiplica ottenuto tramite ruote dentate (corona e pignone) poste all’interno del corpo del mulinello che viene espresso con una formula come questa “ 5:1” dove 1 indica un giro completo della manovella mentre 5 sta ad indicare i giri che il filo compie sulla bobina, tramite apposito archetto guidafilo collegato al rotore (o girante) del mulinello, che si ottengono facendo compiere alla manovella quel giro completo, accennato prima, di 360° sul suo asse.
Ad un neofita questa caratteristica, a prima vista, può sembrare secondaria e di non grande rilievo e lo spinge a rivolgere molta più attenzione ad altri aspetti e caratteristiche, invece la conoscenza del rapporto di recupero riveste la stessa importanza degli aspetti elencati precedentemente perchè ci indica soprattutto il tipo di mulinello che abbiamo tra le mani e per quale tecnica è indicato il suo corretto utilizzo.
Un mulinello con rapporto di recupero alto ( da 5.8:1 a 6.5:1 e oltre), che quindi fa compiere per ogni giro di manovella parecchi giri di avvolgimento del nylon sulla bobina, è molto utile per velocizzare tutte le operazioni: per esempio nella pesca all’inglese per un veloce affondamento ed allineamento del filo subito dopo il lancio; di solito sono mulinelli prodotti in piccola e media taglia con bobine di diametro non eccessivo anche se buona capacità, potremmo paragonarli a veloci e piccole vetture di media cilindrata sul piano ma… lente in salita.
I mulinelli con un rapporto più basso ( per ipotesi estrema partendo da 1:1 sino ad arrivare ad un 4.5:1 ) sono mulinelli potenti, dei piccoli argani, adatti a notevoli sollecitazioni ed al recupero di prede di grossa stazza; la capacità della bobina aumenta così come il suo diametro e tutto il peso-volume dell’attrezzo, di conseguenza è facile immaginare per quali tecniche essi vengano utilizzati: una su tutte il bolentino. Se prendiamo ad esempio il paragone fatto prima con le piccole vetture veloci questi attrezzi assomigliano molto a degli autentici trattori in miniatura.
Nella fascia media da 4.5:1 a 5.8:1 troveremo la maggior parte ed il maggior numero di attrezzi, diversificati per materiali, colore, dimensioni, capacità e peso… con quelle caratteristiche specifiche di progettazione per quanto riguarda le bobine, le manovelle, gli archetti ecc. ecc. che ci faciliteranno nella giusta scelta e che tratterò in seguito.
ATTENZIONE però che ad un rapporto di recupero alto per ogni giro di manovella non sempre corrisponde un’alta velocità di avvolgimento del filo, e viceversa….bisogna tenere in considerazione anche le dimensioni della bobina; l’aspetto che molto spesso sfugge al neofita e che alcuni produttori omettono di dichiarare: è la velocità di recupero per ogni giro di manovella.
Facciamo un esempio pratico: prendiamo due mulinelli con bobine di diametro differente, una più grossa dell’altra, diciamo che la circonferenza interna di una bobina sia di 10 cm. e l’altra di 20 cm.; il mulinello che monta la bobina più piccola ha un rapporto molto alto di 6.5:1, l’altro basso di 4:1; ad ogni giro di manovella il primo perciò raccoglierà in totale 65 cm. (10 cm. x 6.5) di monofilo, l’altro invece ne avvolgerà ben 80 cm. (20 cm. x 4) risultando quindi più veloce nel recupero, anche se come prima impressione il rapporto basso faceva presupporre il contrario.
In alcune tecniche una buona velocità di avvolgimento del monofilo è fondamentale (oltre alla pesca all’inglese già citata, lo spinning o lo striscio trota-laghetto sono altri esempi), perciò occorre valutare bene i due parametri suddetti, e quindi il prodotto che si ottiene tra rapporto di recupero e dimensioni interne della bobina, per non sbagliare nell’acquisto.
La conoscenza di quanto filo si imbobina ad ogni giro di manovella oltre a darci visione oggettiva sulla velocità di recupero è utile anche per conoscere, contando i giri impressi alla manovella, la quantità di filo che si sta imbobinando; utile per esempio quando vorremmo conoscere la distanza raggiunta in un lancio…basterà riavvolgere il filo dopo il lancio contando quanti giri faremo della manovella e sapremo in maniera piuttosto precisa la lunghezza che abbiamo ottenuto con la nostra gittata.
Anche quando volessimo fare un’aggiunta di filo nel mulinello su uno vecchio monofilo già esistente contando i giri della manovella, e conoscendo la lunghezza equivalente di imbobinatura ad ogni giro, sapremmo quanto filo nuovo abbiamo avvolto in bobina.
Qualche cenno sulla meccanica dei mulinelli a bobina fissa credo sia dovuto, non perchè prima di scegliere un mulinello dovremmo per forza smontarlo….molti di noi non sarebbero nemmeno in grado di valutarne pregi e difetti o differenze nei materiale costruttivi, ma alcuni consigli dettati dalla mia, ma soprattutto qualificata esperienza altrui, credo possano servire ad orientarvi.
Molto spesso la pubblicità che si fa a questi attrezzi mette in risalto il numero elevato di cuscinetti montati per evidenziare l’efficienza dell’attrezzo…… più è elevato il numero….. migliore è la meccanica, la fluidità e quindi il funzionamento del mulinello…… classica pubblicità ingannevole, spesso non corrispondente a verità!!!!
Ci è voluto una dettagliata lezione di un ingegnere meccanico e lo smontaggio diretto di due mulinelli con caratteristiche diverse, in special modo sulla quantità “presunta” di cuscinetti (uno ne aveva solo 4 più uno “speciale” a rullo, l’altro ben 12), per farmi accettare questo dato di fatto.
La prima cosa da verificare è la veridicità dell’esistenza del numero di cuscinetti dichiarati, seconda cosa l’accertarsi del materiale di cui sono composti, terza ma non ultima conoscere lo scopo per cui sono stati montati.
Nel primo caso dovremmo per forza smontarlo….operazione che non consiglio a nessuno….. per sapere se il numero dichiarato sia veramente il numero di cuscinetti montati nel mulinello, oppure osservare attentamente l’esploso (… la scheda di assemblaggio…) con le sigle ed i codici dei vari componenti per una loro sostituzione in caso di guasto, scheda non sempre presente in tutte le scatole; vi assicuro che spesso vengono spacciati per cuscinetti delle semplici boccole in teflon oppure vengono montati in serie due o più cuscinetti dove ne basterebbe uno solo.
Il secondo caso, che è il più frequente purtroppo, è il materiale di costruzione dei cuscinetti; un buon cuscinetto in acciaio inox (…non parliamo poi di quelli in acciaio rivestiti di speciale ceramica protettiva anticorrosione….e quelli con sfere in ceramica), nelle misure idonee per essere montato sui nostri attrezzi, ha un costo di qualche euro….è semplice perciò fare due conti e capire che per montarne dieci o più in semplice acciaio temperato si arriverebbe ad un costo intorno ai 30-50 euro…..solo per i cuscinetti!!!
Molto spesso quello è il costo medio di un mulinello di medio-bassa fattura (forse solo qualche manciata d’euro in più….) perciò si capisce che a quel prezzo non si può avere un attrezzo che presenti 12 cuscinetti in acciaio inox non attaccabili da ruggine e salsedine ….ma il materiale di cui saranno composti ( acciaio di bassa qualità, ferro o leghe metalliche) spesso sarà molto diverso e di basso costo e potrebbe comportare, anche nel breve termine, problemi di fluidità al mulinello.
Consiglio quindi di diffidare da quelle ditte che non dichiarano, pubblicamente, e non riportano stampigliato sulla confezione almeno il termine “acciaio inox” associato al numero dei cuscinetti.
Nel terzo caso solo l’intervento di un ingegnere meccanico potrebbe far capire l’importanza della fluidità meccanica, dei giochi, e delle oscillazioni; personalmente non sono in grado e vi riporto, a grandi linee e sommariamente, l’analisi e le spiegazioni avute.
“Una buona progettazione, l’uso di materiali idonei (come il bronzo e l’acciaio) per la realizzazione delle ruote dentate (come la corona e il pignone) e dell’alberino, un corretto assemblaggio verificato con prove di sforzo, fa diminuire notevolmente l’utilizzo di cuscinetti al minimo indispensabile garantendo così il montaggio di componenti altamente affidabili ed innovativi, contenendo al contempo relativamente le spese; la presenza di un numero elevato di cuscinetti è dovuta proprio a carenze strutturali ed a correzioni dei giochi e delle oscillazioni; più il numero è elevato ed è probabile che più saranno i componenti soggetti a squilibrio o a mal funzionamento da correggere, in questo caso per contenere i costi finali si useranno materiali di prezzo competitivo”.
A voi credere o meno a ciò che ho riportato, che sicuramente non leggerete mai in nessun articolo tecnico cartaceo, per ovvi e facilmente intuibili motivi, riguardante la “prova (o test) di attrezzature” con la descrizione delle caratteristiche tecniche e di funzionamento di uno specifico mulinello.